mercoledì 31 dicembre 2014

THAMAR E GIUDA. Prove di matrimonio dopo il divorzio tra Adamo ed Eva. Di LUIGI CAMPAGNER

Pubblichiamo l'intervento di LUIGI CAMPAGNER 
(da Il Sussidiario, 3.12.14) 

“Una donna siede ai piedi di Giacobbe, l’uomo ricco di storia, nel bosco di Mamre, non lontano da Hebron, la capitale di Canaan. Donde vien questa donna giovane e seria? Chi è? Il suo nome è Thamar. Guardiamo intorno a noi le facce dei nostri uditori, e solo poche, solo qualcuna s’illumina. Voi dunque realmente non lo sapete più, non l’avete mai saputo chi era Thamar? Era una sua ammiratrice, una sua alunna nella scienza del mondo e di Dio, che pendeva dalle sue labbra con tanta devozione che l’orfano cuore del vecchio, di lei perfino un poco si innamorò”. Anche Thomas Mann, l’autore di questo brano, un poco s’innamorò di Thamar e non esita a elevarla al rango di Astarte, l’Afrodite ante litteram, adorata in tutta l’area semitica, la potente divinità seduttrice di Adone, nome dal quale viene Adonai, la parola antica che significa Signore. Anche lui, dicevo, ne è sedotto, come se i sipari dei secoli e di millenni che da lei lo separano non fossero che i veli con cui Thamar ebbe ragione di Giuda, scrivendo per sempre il suo nome di donna straniera nella Storia della Salvezza.
    Mann scrive di Thamar, al termine di una lunga meditazione su come inserire la sua storia nell’immenso racconto di "Giuseppe i suoi Fratelli". Lo scrittore di Lubecca, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1929, lo aveva mandato alle stampe in esilio, tra il 1933 e il 1943. Prima da Zurigo poi da oltre Oceano, non smetterà di punteggiare il tragico scorcio di storia tedesca con la pubblicazione dei volumi della scandalosa tetralogia, in cui esaltando l’epos ebraico conquista il lettore al fascino e all’ammirazione per i fondatori del Giudaismo. Quando Mann, nel 1943, decide di piegare l’economia del grandioso romanzo al fascino per Thamar, dedicandole il quinto capitolo di Giuseppe il nutritore, il presidente Americano Roosevelt, amico personale dello scrittore – gli studiosi dell’opera manniana sostengono che il suo Giuseppe gli rassomigli non poco - siede alla conferenza di Teheran dove si riorganizza l’Europa.
Allora chi è Thamar? L’onore tributatole da Thomas Mann non è valso alla sua notorietà. Su di lei la cronaca non solo è scarna, ma si è “espressa sempre con brusca concisione”, ragion per cui lo scrittore tedesco, amico e corrispondente dell’ebreo S. Freud, non si è lasciato sfuggire l’occasione di integrare il capitol(ett)o 38 del Libro della Genesi: la storia di Giuda e Thamar. Thamar è la “nuora nipote” di Giacobbe, per due volte sposa e per due volte vedova dei figli di Giuda, prima Er, poi Onan, il cognato, che in quella lingua si dice levir. Sela, il terzo figlio le fu rifiutato con disprezzo di lei e del levirato: l’antica legge che obbligava il cognato a prendersi cura “della vedova e degli orfani”. “Divoratrice di giovinetti”, questa l’ingiusta fama della donna, ormai ramo secco del grandioso albero della discendenza di Giacobbe. Questa la cattiva sorte dalla quale Thamar fu in grado di risollevarsi con “straordinaria risolutezza”. “Spiar nelle alcove è al di sotto della dignità di chi narra questa storia”: qui (e solo qui) Mann delude i suoi lettori, perché di alcove e non di altro si tratta. Thamar “la risoluta” smise il velo del lutto e indossò quello della seduttrice mercenaria. Giuda la volle per sé, la conobbe senza riconoscerla, ricalcando la “svista” di Giacobbe, che conobbe Lia, scambiandola (sic!) per l’amata sorella di lei, Rachele, e contraendo in tal modo l’obbligo di sposarla. Thamar, l’alunna prediletta di Giacobbe, la confidente delle sue storie lo sapeva, contrattò il meretrico è fissò un prezzo pari alla dignità di chi la chiedeva. In pegno trattene il bastone, l’anello e il cordone di Giuda, lo stesso che in veste di giudice e capo inquisì contro di lei: scopertala incinta l’accusò di meretricio, condannandola alla lapidazione e al rogo. Ancora a Giuda, venutala a prelevare per il luttuoso ufficio, la donna consegna i pegni dell’unione mercenaria, i simboli del suo rango, accompagnandoli con l’umile domanda: li riconosci? “Lei è più giusta di me”, fu la frase dell’uomo annotata nelle cronache. Esaminata, la donna è trovata innocente e il suo agire impeccabile. Il suo coraggio e la sua determinazione catturano l’ammirazione degli astanti, i lettori del libro degli inizi, fino a Thomas Mann ai suoi lettori e a noi. Anche la sentenza di Giuda cattura l’attenzione, così alternativa e ancestralmente rivoluzionaria rispetto all’altra, quella di Adamo che, incolpandola, ruppe il coniugio con la donna, dando luogo al primo caso di divorzio della storia. 
     Il libro degli inizi non dice se Giuda fu all’altezza del suo giudizio nel seguito della storia con Thamar. Non risulta. Ma saperlo ha un’importanza relativa: lo sarà forse per letterati, archeologi della cultura, “strizzacervelli” e simili, perché in questo genere di cose si riparte sempre da Adamo e Eva. O da Thamar e Giuda. A questo punto: fait votre jeux.

mercoledì 16 luglio 2014

FRANCESCO, IL CRISTIANESIMO SEMPLICE DI PAPA BERGOGLIO. Di Alessandro Zaccuri


“In questo libro c’è quello che ho fin qui capito del cristianesimo. Il libro stesso è, di conseguenza, molto piccolo, perché il cristianesimo non è un argomento, non è qualcosa che si può padroneggiare e capire. Semmai, è ciò da cui si viene capiti, interpretati e accolti. Il titolo è "Francesco", il sottotitolo rimanda al «cristianesimo semplice di papa Bergoglio». Più che un saggio sul pontefice, è il tentativo di descrivere, per accenni e come in un racconto, la tradizione particolarissima di un francescanesimo fortemente mediato dalla lezione e dal metodo di sant’Ignazio di Loyola. Il raffronto non è tanto con i "Fioretti," quanto con gli "Esercizi spirituali" e con alcuni capolavori pittorici, primo fra tutti lo strepitoso San Francesco di Zurbàran che ho avuto modo di ammirare a Ferrara l’autunno scorso. In quel quadro, secondo me, c’è tutto quello che volevo scrivere”.
E’ l’autore stesso, Alessandro Zaccuri, nelle righe che seguono a raccontare la propria avventura.
Per articolo completo vai a http://alessandrozaccuri.it/?p=850#more-850
Gli "Esercizi spirituali" di Ignazio di Loyola sono il racconto di una semplicità conquistata. Il termine non è scelto a caso. Sia Francesco sia Ignazio sono stati soldati, hanno combattuto, hanno conosciuto il primo la prigionia e il secondo la sofferenza delle ferite. Dopo di che, hanno abbandonato le armi. «Tutti e’ profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono», si compiace di annotare Machiavelli nel "Principe", istituendo una regola generale che però non tiene conto dell’eccezione francescana e ancora non può, per meri motivi di cronologia, apprezzare quella ignaziana. Francesco e Ignazio sono e vogliono essere «profeti disarmati», non per disprezzo della disciplina militare (che anzi riveste un ruolo tanto importante nell’organizzazione interna della Compa­gnia di Gesù e, in modo più sotterraneo ma non meno rilevante, nella stessa famiglia francescana), ma perché in questa rinuncia all’armatura si consuma il primo stadio della spogliazione,  fondamento e l’apice della vita cristiana (...). 
Prima ancora di denudarsi davanti al vescovo di Assisi, Francesco decide di non indossare più la corazza del cavaliere. A quel punto è già al cospetto di se stesso, è già nudo, già totalmente identificato con la sua sola umanità. Si pensi a un quadro celeberrimo: la Pala Montefeltro di Piero della Francesca (1472). Tra i numerosi santi che compaiono del dipinto c’è anche Francesco, che nella mano destra tiene la croce, mentre con la sinistra scosta leggermente i lembi di un taglio nel saio, sotto al quale sta un altro taglio, più doloroso: la ferita che il serafino gli ha impresso sul petto. È la ferita in cui sono compendiate tutte le altre, la stessa piaga riprodotta con estremo realismo da Caravaggio nella magnifica Incredulità di Tommaso (...).
Il Francesco che troviamo nella "Pala Montefeltro" mostra insieme la croce e la ferita ribadisce, con questo duplice gesto, il legame speciale che fa di lui un "alter Christus". Il suo è anche un atto di denudamento. Francesco lascia intravedere la propria nudità, sia pure parziale, perché in quella nudità – in quella carne altrimenti condannata al peccato – si è manifestata la salvezza. La mobilità del santo è in singolare contrasto con la fissità nella quale appare relegato il committente, Federico da Montefeltro, l’unico tra i molti personag­gi del dipinto che Piero ritrae di profilo. Federico è anche il solo ad apparire in ginocchio, ancora rivestito della sua armatura. Restano scoperti il volto, tratteggiato in una rigidità da cammeo, e le mani, riprodotte dal pittore con meticoloso realismo. Nonostante la plasticità dei dettagli (il colore dell’in­carnato, le venature che lo attraversano, gli anelli), le mani di Federico restano inerti, non operano alcuna rivelazione, al contrario di quelle di Francesco. 


Le mani del condottiero sono terribilmente simili ai guanti dell’armatura appoggiati davanti a lui, per terra, pronti a essere indossati una volta terminata l’orazione. Vicino a loro c’è l’elmo, collocato di tre quarti, in modo da accentuare ulteriormente la linea innaturale del profilo: è come se la sommità dell’armatura, ancora con la celata abbassata, fosse diventata il vero volto di Federico. Il guerriero non si è disarmato, la nudità delle sue mani è accidentale, momentaneo il suo presentarsi a capo scoperto. Il suo corpo non può ricevere alcuna ferita, neppure per via mistica, come nel caso di Francesco. Ma lo spettatore intuisce che in que­sta incolumità si annida un pericolo: chi non viene ferito, non può essere salvato. Per questo non si dà, nel tempo presente come in ogni tempo, cristianesimo che non sia disarmato (...) .

sabato 28 giugno 2014

LA DEMOCRAZIA, UN CONCETTO AMBIGUO. Di Giorgio Agamben


Il filosofo GIORGIO AGAMBEN era ad Atene, invitato dai giovani di SYRIZA e dall’istituto Nikos Pulantzas. Il suo intervento, nell’aula gremita di Technopoli, dal titolo “Una teoria sul potere della spoliazione e del sovvertimento”, è stato dedicato al quarantennale della rivolta del Politecnico. Domenica 17 novembre (2013) hanno conversato con lui Anastasia Giamali, per “Gemme dell’Alba”, e Dimosthenis Papadatos-Anagnostopulos per “RedNotebook”. 

Hanno collaborato Xenia Chiaramonte e Stratis Burnazos. La traduzione è di Giorgio Fogliani con la consulenza di Dimitris Kosmidis. Si ringrazia il sito DOPPIOZERO da cui è tratta l’intervista di cui pubblichiamo qui i passi pincipali. 

vai all'articolo completo:

DOMANDA. La società nella quale viviamo non è semplicemente non democratica, ma, in ultima analisi, non politica, dal momento che lo status di cittadino non è più una categoria del diritto. È dunque conseguibile il cambiamento politico nella direzione di una società politica?
Quel che volevo evidenziare è l’aspetto del tutto nuovo della situazione.  Credo che, per capire ciò che ci siamo abituati a chiamare “situazione politica”, dobbiamo tenere a mente il fatto che la società nella quale viviamo forse non è più una società politica. Un fatto simile ci obbliga a cambiare completamente la nostra semantica. Ho provato allora a mostrare come, nell’Atene del quinto secolo a.C., la democrazia inizi con una politicizzazione dello status di cittadino. L’essere cittadino ad Atene è un modo attivo di vita.

Oggi, in molti paesi d’Europa, come anche negli USA, dove la gente non va a votare, l’essere cittadino è qualcosa di indifferente. Forse in Grecia questo vale in misura minore; per quanto ne so, qui esiste ancora qualcosa che somiglia a una vita politica. Il potere oggi tende a una depoliticizzazione dello status di cittadino. La cosa interessante in una situazione talmente depoliticizzata è la possibilità di un nuovo approccio alla politica. Non si può stare attaccati alle vecchie categorie del pensiero politico. Bisogna rischiare, proporre categorie nuove. Così, se alla fine si verificherà un cambiamento politico, forse sarà più radicale di prima.
DOMANDA. Seguendo Foucault, lei ha detto che la “logica” del potere contemporaneo non consiste nel fronteggiare le crisi, ma nel gestirne le conseguenze. Nel suo libro La comunità che viene, lei sostiene che le cose non cambiano, e che, se qualcosa cambia, sono i suoi termini.  Un tentativo di “cambiamento dei termini” può mai ispirare anche una mobilitazione, se nel frattempo non aspira a cambiare le cose?
Ritengo questo punto, che i nuovi governi o almeno i governi contemporanei non vogliano governare affrontando le cause ma solo le conseguenze, estremamente significativo. 
Perché questo è totalmente diverso dalla concezione tradizionale che abbiamo del potere – in linea con la concezione di Foucault di stato sovrano. Se la logica del potere è controllare solo conseguenze e non le cause, c’è una bella differenza. Quello che volevo intendere con l’idea di "cambiamento dei termini" è che abbiamo un potere che semplicemente gestisce conseguenze.

DOMANDA. In un suo articolo pubblicato il mese scorso su Libération (ottobre 2013) lei ricordava un saggio di Alexandre Kojève del 1947, dal titolo “L’impero latino”, dove il filosofo francese propone la costituzione di un “impero” di Francia, Italia e Spagna, paesi dal comune substrato culturale che, in collaborazione con i paesi del Mediterraneo, avrebbero potuto contrastare una Germania in predicato di tornare grande. Lei ritiene che un simile progetto sia un possibile contrappeso all’egemonia di Angela Merkel. Eppure, sembra che i leader di quei paesi siano più interessati alla realizzazione del “dogma Merkel” nella propria politica interna che alle ripercussioni di quel dogma in un’Europa sempre più frammentata.
Ho scritto quell’articolo perché volevo ricordare che l’Europa che abbiamo oggi è, quantomeno da un punto di vista istituzionale, non legittimata. Come sapete, la Costituzione Europea non è una Costituzione, ma un accordo tra stati – cioè il contrario di un Costituzione, poiché le Costituzioni le fanno i popoli. Perciò ho fatto ricorso a questa idea di Kojève: è possibile un altro modello per l’Europa? Quel modello è interessante perché si basa non su una unità astratta, ma su una unità molto concreta, basata sulla tradizione, lo stile di vita, la religione. In qualche modo, costituisce forse una possibilità concreta. Naturalmente, la Grecia dovrebbe far parte di questo gruppo. 
Sono rimasto sorpreso dalle reazioni che l’articolo ha suscitato. Quando l’ho scritto, era più che altro una provocazione per cominciare una critica all’Europa. Ma in Germania ha avuto inizio un enorme dibattito. Erano molto infastiditi. E ancora mi scrivono, chiedendomi di spiegare cosa intendessi. Il che significa che anche un tedesco vede che c’è un errore nell’Europa oggi, anche nella sua ottica di tedesco. Questo dimostra che il modello di Europa che abbiamo oggi non è accettato. Lo testimonia il fatto che il popolo francese e quello olandese hanno detto no alla costituzione europea – e immagino che anche in Grecia verrà bocciata.
DOMANDA. La sua opera è particolarmente popolare, sebbene irradi un certo pessimismo. Žižek, per esempio, scrive a proposito di Homo sacer  che lei, con il suo sostenere che la sfera della “nuda vita” tende a essere la sfera della politica, intende sottovalutare la democrazia, lo stato di diritto ecc.. Li ritiene cioè come se fossero “artifizi” del potere contemporaneo. È fondata questa critica?
Non sono pessimista, esattamente il contrario. L’ottimismo e il pessimismo, d’altronde, non costituiscono categorie filosofiche. Non puoi giudicare un pensiero o una teoria sulla base del suo ottimismo o pessimismo. A volte il mio amico Guy Debord citava un brano di Marx che dice: “La situazione catastrofica delle società in cui vivo mi riempie di ottimismo”. Ciò che tento di fare nel mio libro su Auschwitz, il campo di concentramento, la contemporaneità, non è un giudizio storico. Tento di delineare un paradigma, al fine di capire le politica ai giorni nostri. Non intendo dire dunque che viviamo in un campo di sterminio – molti dicono “Agamben dice che viviamo in un campo di concentramento”. No. Ma se prendi il campo di concentramento come paradigma per capire il potere oggi, questo può essere utile.
DOMANDA. Negli anni della crisi viene quasi naturale rievocare il primo dopoguerra, la repubblica di Weimar. Per tutta la sua vita lei ha dialogato, o come scrittore o come traduttore, con un’importante personalità di questo periodo, Walter Benjamin. Che cos’ha da dirci Benjamin oggi?
L’edizione dell’opera di Benjamin in Italia ha significato un rinnovamento del pensiero di sinistra. Ciò che trovo interessante in Benjamin è il modo in cui prende la semantica teologica – come per esempio il concetto di tempo messianico e l’escatologia della concezione – e la estrae dal contesto teologico, facendola funzionare con la sfera politica. Da un punto di vista metodologico, questo è molto importante. Per produrre una nuova semantica politica, dobbiamo imparare da Benjamin. Nel mio libro Il regno e la gloria   ho mostrato come la teologia cristiana ha rielaborato questo paradigma. È stato incredibile per me scoprire – lavorando e tornando alla ricerca – che per capire che cos’è il governo è più importante studiare trattati medievali sugli angeli che saggi di dottrina politica. È stato davvero illuminante. Lo stesso accade per Benjamin. Ha una buona idea sul tempo messianico – ogni attimo della storia, nel presente, è l’attimo decisivo, l’Ora del Giudizio: affrontiamo la storia come se ogni attimo fosse quello decisivo (...).
Direi che la democrazia non è tanto un concetto generico, quanto ambiguo. Noi affrontiamo questo concetto come se fosse la stessa cosa nell’Atene del quinto secolo e nelle democrazie contemporanee. Come se fosse dappertutto e sempre chiarissimo di che cosa si tratta. La democrazia è un’idea incerta, perché significa in primo luogo la costituzione di un corpo politico, ma significa anche e semplicemente la tecnologia dell’amministrazione – ciò che abbiamo oggi. Oggi la democrazia è una tecnica del potere, una tra le altre.
Non intendo dire che la democrazia è cattiva. Facciamo allora questa distinzione, tra democrazia reale come costituzione del corpo politico e democrazia come mera tecnica di amministrazione che si regge sui sondaggi, sulle elezioni, sulla manipolazione dell’opinione pubblica, sulla gestione dei mezzi di comunicazione di massa ecc. La seconda versione, quella che i governanti chiamano democrazia, non somiglia in niente a quello che esisteva nel quinto secolo. Non puoi usare la democrazia come nuovo Paradigma, se non dici cos’è oggi la democrazia. Se vuoi propugnare la democrazia, devi pensare qualcosa che non abbia nessun rapporto con ciò che oggi si chiama democrazia. 
DOMANDA. L’antichità classica, greca e romana, è costantemente presente nella sua opera. Questa scelta è fortemente simbolica, in un momento in cui l’università pubblica viene smontata, le scienze umanistiche sono svalutate e la cultura classica tende a essere affrontata come un pezzo da museo, un anacronismo...
Mi fa piacere che mi facciate questa domanda. Non si tratta semplicemente di una priorità culturale. È una priorità politica. La relazione con il passato oggi non è un problema culturale, ma politico. Non si può capire che cosa succede oggi se non si capisce che un'altra cosa che è cambiata completamente oggi è la relazione vivida col passato. Quello che fa oggi il potere – lo vedo succedere in Italia come in Grecia – è disarticolare il sistema di “trasmissione” del passato. 
Sono persuaso che l’archeologia, nel senso foucaultiano, è l’unico modo per avere un aggancio al presente. Possiamo avere un aggancio al presente solo se andiamo indietro. È questa un’immagine che Foucault usa molto, dicendo che la sua ricerca storica è un’ombra che getta sul passato l’interrogarsi sul presente. Non puoi interrogare radicalmente il presente se non vai indietro. È la sola strada. Ed è questo che oggi vogliono evitare. Presentano il presente come un problema meramente economico, e tu devi dire solo sì o no. Questo ostacola seriamente la possibilità di fare politica (...)
DOMANDA. Carl Schmitt, l’importante teorico che, come è noto, abbracciò il nazismo, costituisce per lei un riferimento costante, specialmente nel libro Stato d’eccezione, dove lei tenta di dimostrare che la regola del potere non è la legge ma l’eccezione, l’anomia. Al tempo stesso, il suo lavoro è profondamente influenzato da Foucault, il cui argomento basilare è che il potere ha un contenuto positivo – forma, costruisce. Quali sono, alla fine, i termini dell’uso di Schmitt in un ambito di pensiero progressista?
Mi date l’occasione di chiarire questo punto, perché spesso ricevo critiche per quest’uso di Schmitt. Egli sostiene che è sovrano colui che decide circa la stato d’eccezione, quindi il potere poggia sull’eccezione; la mia idea è che mentre Schmitt si ferma qui, e dice che il campo della legge è lo stato di eccezione, allo stesso tempo dice che la legge è in vigore. La concezione della legge in Schmitt è che la legge comprende l’eccezione alla legge stessa, ma allo stesso tempo la legge è ancora lì – di conseguenza non possiamo parlare di a-nomia. Io, al contrario, provo a dimostrare che questo è un errore: che ciò che si verifica in questo caso è semplicemente una zona di anomia. 
Qual è dunque la differenza tra me e Schmitt? Che io provo a dimostrare che la legge non c’è più. E qui arriva ciò che ho sostenuto nel mio discorso ad Atene di sabato, che cioè l’importante è dimostrare che l’anomia è stata soggiogata dal potere. Il sistema di Schmitt funziona solo se accettiamo che la sospensione della legge è ancora legge, che quella zona di anomia è lecita. Nel mio discorso ho provato a dimostrare che un potere de-istituente (destituent power) deve rendere chiaro che il sistema legale all’interno del quale viviamo non si fonda su una sospensione legale della legge, ma semplicemente sull’anomia. In un caso simile, il sistema di Schmitt crolla.
DOMANDA. Crede che Benjamin sia una specie di schmittiano di sinistra?
No, questo è un errore. Benjamin sostiene che davanti allo stato di eccezione bisogna produrre un vero e proprio stato di eccezione. Lo stato di eccezione di Schmitt è fittizio nel momento in cui insinua che la legge c’è ancora. Un “vero” stato di eccezione, con Benjamin, è il seguente: dite che qui non c’è legge? Beh, allora, noi lo prendiamo sul serio: di fatto, non c’è. L’anarchia, dunque, che si trovava all’interno del potere, ora si confronta col potere nello stato di eccezione come inteso da Schmitt. Non ho in mente uno scontro violento con il potere. Al contrario, mi interessa quanto strategica possa risultare questa anomia. Sarebbe la strada che dimostrerebbe che al centro della legge si trova l’anomia. Quando dico che bisogna concepire un potere de-istituente, penso che la violenza costituisca un potere costituente, cioè il contrario. 

martedì 6 maggio 2014

RIDERE, DERIDERE, IRRIDERE di Giancarlo Ricci

Qualche considerazione, ancora, sul gesto di Benedetto XVI e su un certo atteggiamento dei media, sulla responsabilità, sulla potestas. Farsi zolla, diceva Blake.


Al di sopra di tutti gli uomini, ma sempre uomo e sempre con lo sforzo di tenere salda l’insegna della propria funzione: di fronte a ciò che ascoltava e pensava, di fronte alla scena di ciò che gli stava dinanzi (non è questo l’etimo di “osceno”?), Benedetto XVI con questo atto si è fatto scarto del mondo, si è fatto resto che lascia il mondo pur rimanendo nel mondo. Mai come oggi avvertiamo che tra il mondo e l’immondo il passo è breve.
E ancora: si è fatto zolla che si lascia calpestare dalla mandria dei bisonti, come Roberto Mussapi ha scritto, evocando le potenti immagini di William Blake. Farsi zolla, scarto, scoria, farsi piccola cosa, umile e impotente; gesto non lontano dal sicut palea di san Tommaso. Insistiamo nel sottolineare che si tratta di un atto, ossia qualcosa che taglia e chiude una serie, la porta a termine, la conclude. Attua una partizione. Forzando i concetti si potrebbe qui azzardare un’adiacenza tra atto e giudizio.  
Ebbene nell’immagine di Blake compaiono e permangono i bisonti: animali che corrono, numerosi, in mandria, e travolgono qualsiasi cosa, la triturano e fanno tremare la terra. Chi sono i bisonti oggi? I bisonti non soltanto entrano nei negozi di porcellane, ormai attraversano tutto, vanno in lungo e in largo, dilagano. Del loro ottuso scempio fanno spettacolo, creano notizia, partecipano festosamente a quella che viene chiamata società dello spettacolo ma che meglio potrebbe definirsi società del voyeurismo. Una volta dentro, dal voyeurismo non si esce più. La società attuale è strutturata come il panottico di Bentham . 
Ritorniamo all’atto del pontefice. Che strutturalmente si rivela come atto simbolico in quanto interrompe l’immaginario portentoso celebrato dall’era della tecnologia, con le sue dimostrazioni di potenza e di padronanza sul mondo e sulla natura. Nulla di più semplice, di povero e di umile dell’atto. La sua forza consiste nel fatto che possiamo raccontarlo in differenti modi, ma infiniti altri modi rimangono non raccontati. Dall’atto incomincia un racconto ma lo svolgimento non è più prevedibile.  
Potremmo dire che il pontefice si è esposto all’atto di sottrarsi. Mancando a sé, riconsegnando la propria insegna, ha voluto esigere che fossero (gli) altri ad esporsi. Dal punto più alto della responsabilità non rispondo più della vostra assenza di responsabilità. E io stesso mi espongo, senza sottrarmi, alla responsabilità di attuare un atto che lascia in sospeso  l’attribuzione di responsabilità. Insomma: simile movimento propone il rovescio della vanità dell’Io, della sua passione narcisistica, dell’esercizio compiaciuto della potestas
E ancora: pochi si sono accorti che in questo atto pulsa un’infinita ironia e altrettanta generosità. Nell’ironia dico il contrario di ciò che penso, costringendo l’altro a cercare la verità da solo , se davvero lo desidera. Cosicché nell’ironia c’è poco da ridere. Infatti siamo presi per il bavero e sollecitamente invitati a mettere alla prova la nostra nuda soggettività. Ecco perché volentieri ce la svigniamo, e solo dopo che abbiamo evitato il brutto incontro, ridiamo maldestramente. Forse le ideologie, con tutte le loro imprevedibili metamorfosi, ci hanno addestrato troppo bene a ridere, deridere e irridere sbrigativamente, a bacchetta, su comando.  

venerdì 28 febbraio 2014

UN ALTRO PAPA di Giancarlo Ricci


Dopo circa un anno dall'arrivo di papa Francesco, 
qualche considerazione tratta dal libro 
"L'atto la storia" (2013, Ed. San Paolo) di G. Ricci. 

Un Altro papa. Il Novecento probabilmente termina oggi perché a mutare sono i riferimenti che tessevano la cornice antropologica in vigore sino a ieri. Quei riferimenti oggi vacillano, o quanto meno proseguono per inerzia, lungo direzioni casuali che risultano sempre meno intellegibili. 


Nel frattempo siamo all’inizio di un epoca in cui la biopolitica e la biotecnologia vengono proposte, in modo monopolistico, come istanze egemoniche. Il nodo della questione è se questi modi possano ancora appartenere all’umano. Faccenda non molto diversa dal dibattito, sorto qualche decennio or sono, intorno alla shoah, dove diversi intellettuali si chiedevano se l’umano sarebbe mai potuto esistere ancora. 
Ci sarà un nuovo papa, un successore. Ma - cosa essenziale - sarà il primo papa di una nuova serie di papi. Un atto divide, dicevamo. Apre uno spartiacque, un prima e un dopo. Ogni interruzione istituisce l’avvio di una nuova numerazione: il successore di Benedetto XVI sarà il primo di una nuova serie di Papi. Oggi ci troviamo in mezzo, nell’interruzione.
 Ci troviamo propriamente in quel non sapere caratterizzato dall’après-coup (la Nachträglichkeit freudiana): ciò che accadrà dopo, anno dopo anno e decennio dopo decennio, getterà nuova luce su ciò che sarà stato oggi. Su ciò che ha dominato e che ha riverberato, con le sue luci e ombre, in questa epoca senza che ce ne accorgessimo pienamente. La domanda rimarrà spalancata, aperta al futuro anteriore: che cosa sarà stato?  Che cosa sarà stato quel gesto enigmatico, così resistente al senso, così imprevisto ma incredibilmente fecondo di effetti ? 


Le cose che verranno progettate da ora in avanti non potranno essere più costruite con le stesse pietre, nè allo stesso modo. E’ questo il punto in cui mi sembra emerga la densità di una domanda intorno al destino antropologico che ci aspetta al varco. Dove c’è passaggio, c’è una soglia che viene varcata. E, una volta varcata, la scena non è più la stessa. Insomma: la civiltà (Kultur) può rinunciare a se stessa? Può mancare a se stessa? Può sparire in una globalizzazione che spenga il lavoro di civiltà (Kulturarbeit), da sempre linfa dell’umano? 

venerdì 14 febbraio 2014

SULLA LAICITA' E L'ETICA di Giancarlo Ricci


"Un’altra laicità" è un paragrafo di L'atto la storia di Giancarlo Ricci. Il libro porta come esergo 
le parole di Meister Eckhart: 
“Ci sono quelli che vanno per mare con poco vento e lo attraversano: così fanno ma non lo attraversano. 
Il mare non è una superficie. 
E’ dall’alto in basso l’abisso. 
Se vuoi attraversare il mare, fai naufragio”
                                                                                              


I laicisti, coloro che assumono la laicità come professione di fede, fanno finta di non accorgersi che sono costretti a credere ciecamente alla loro ragione e a celebrarla; vi sono aggrappati, a volte non senza patetismo, nota Jacques Lacan. Del resto una ragione che non credesse a se stessa coinciderebbe con il disfacimento stesso di ogni ratio. Proveniamo da un secolo, il Novecento, dove il nichilistico della morte di Dio ha realizzato un drammatico smarrimento della ragione. Ha creduto paranoicamente di poter imporre una ragione totalitaria sui popoli. Il Novecento è stato il secolo in cui, in nome di un laicismo puro, è stata realizzata una religione del massacro e della morte. 

 Atto analitico dicevamo, quello di Benedetto XVI. Un atto che invoca l’istanza di una verità storica, del suo procedere, del suo eventuale futuro e della sua possibile trasmissione. In tempi recenti rimanevo sorpreso udendo più volte una curiosa osservazione: che a difendere fortemente la soggettività e a resistere alla sua omologazione, siano rimasti oggi solo il cattolicesimo e la psicanalisi entrambi, non a caso, abbondantemente bersagliati da critiche e obiezioni. L’accusa è di oscurantismo. Le critiche provengono dalle certezze globaliste insite nell’attuale modernismo il quale, per aprire nuovi mercati alle “multinazionali delle superstizioni” (Carlo Sini), ha bisogno di denunciare e scalzare quelle vecchie. Sappiamo del resto come i totalitarismi si siano fatti strada presentandosi sempre come “portatori di libertà”.
L’atto è laico, direi per definizione. E’ strutturalmente irrituale. Costeggia il rito ma rifugge il ritualismo. L’atto comporta che nel suo accadimento gli effetti non siano garantiti, non possono essere previsti, indirizzati, finalizzati in un unica direzione. L’atto si affaccia sull’alterità, la chiama a manifestarsi. Il laicismo invece ha bisogno di contrapporsi, di aggrapparsi a un presunto Altro per esistere e per farlo esistere. Ogni atto qui è pensato come finalizzato, finalizzabile, transitivo. Deve padroneggiare la necessità del telos. E in tal senso non può rinunciare alla sua inclinazione didattica. 
L’atto è dunque invocazione all’apertura, all’alterità, alla differenza. Non prevede necessariamente il telos. Cerca la proliferazione, si muove verso l’Altro affinché questi mostri il suo volto e il suo nome in uno spalancamento che produca accadimento. Sono convinto - lo dico con parole veloci e rozze - che l’atto del pontefice sia stato, paradossalmente, un atto laico. E mi sembra che il maggior effetto di sorpresa sia stato percepito nell’ambito autenticamente laico. In quell’ambito cioè in cui il pensiero non esclude, per principio preso, nessun pensiero. Il laico non è infatti relativista, semmai assolutizza. O meglio non sa rinunciare all’assolutismo perché di volta in volta lo svuota dall’interno. 

venerdì 17 gennaio 2014

L'INCIVILTA' DELLA COMUNICAZIONE di Giancarlo Ricci


Pubblichiamo un brano del libro di G. Ricci L'atto la storia

La civiltà della comunicazione è anche questo: qualcuno legge al tuo posto e poi propone il riassunto. Ecco il banale trionfo della libertà: puoi scegliere chi farà il riassuntino. La chiamano giustamente civiltà del benessere: si può infatti evitare la fatica di leggere e di pensare. E dunque scegliere, praticando la libertà preferita, tra le infinite opzioni di intrattenimento. Ciò che recentemente si chiamava cultura oggi si chiama “intrattenimento”.
Parola appropriata quest’ultima, in quanto felicemente evoca, immaginando la catena di montaggio di un grande allevamento zootecnico, la fase indispensabile che precede la successiva, quella davvero produttiva.  L’otium latino era tutt’altra cosa. Se invece oggi così volentieri ci offriamo ad essere intrattenuti, significa che senza tale premura non sapremmo che fare del nostro tempo e del nostro desiderio. Ne vogliamo godere. Facendoci intrattenere, ci illudiamo di colmare un vuoto che nemmeno ci appartiene.
La nostra è l'epoca in cui si svolge una stagione dominata da una parola “magica” che produce stupore: ingovernabilità. Essa dilaga nello pseudo dibattito politico, nella gestione della cosa pubblica, nelle istituzioni, nei processi decisionali, nei tavoli delle trattative, nei legami sociali. Il sistema non regge più, non tiene più, dicono alcuni. Già: quando qualcosa termina, cade e cadendo effettua una cesura, un taglio. Le cose non stanno più al loro posto. La memoria esce dagli archivi. La realtà, sempre preconfezionata, e il reale delle cose e del mondo collidono e non riescono più a colludere: occidentali disorientamenti

domenica 5 gennaio 2014

IL NOSTRO TEMPO E IL DISAGIO DELLA CIVILTA' di Giancarlo Ricci

Brani dell'intervento di Giancarlo Ricci con cui ha presentato il suo libro 
L'Atto la storia, alla Galleria San Fedele di Milano  (7.11.2013)


IL SECOLO INCAPACE DI FINIRE. IL PAPA E LA FINE DEL NOVECENTO di Silvia Guidi


Recensione a "L'atto la storia" di Giancarlo Ricci 
uscita sull'Osservatore Romano (3.1.2014) 
a firma di Silvia Guidi

«Ci sono quelli che vanno per mare con poco vento e lo attraversano. Così fanno, ma non lo attraversano. Il mare non è una superficie. È dall’alto in basso l’abisso. Se vuoi attraversare il mare, fai naufragio»; Giancarlo Ricci, giornalista e psicanalista, cita Meister Eckhart per introdurre il suo ultimo libro L’atto, la storia. Benedetto XVI, Papa Francesco e la fine del Novecento (San Paolo, 2013, pagine 92, euro 9) in cui dall’osservatorio privilegiato del suo lavoro — «l’ascolto dei disastri soggettivi e delle loro metamorfosi» — scruta la vertigine del nostro tempo appiattito sul presente, che vive nell’idolatria del nuovo ma fatica a progettare concretamente il futuro. È uno sguardo che  attraversa   a volo radente  il  disagio  di un’intera  civiltà, segnalandone le derive, i paradossi, i punti di non ritorno. 

Con ironia, talvolta con sarcasmo, sempre con dolore autentico. Il ritmo è quello dell’invettiva; è un tempo strano il nostro — scrive l’autore — un tempo in cui l’uomo, pur di non dover riconoscere che ha paura di tuffarsi, non guarda più il mare. Nell’analisi di Ricci, che ha il respiro ampio della lunga durata alla Braudel, il Novecento non è terminato con il crollo del muro di Berlino, né con quello delle Torri Gemelle, perché «qualcosa nella quotidianità continuava a crollare, a produrre macerie e relitti. È stata la decisione di Benedetto XVI di lasciare il pontificato a chiudere il secolo scorso trascendendo la storia della Chiesa. Quell’atto ha messo un punto, ha posto un sigillo: quanto accadrà nel futuro non potrà essere interpretato attraverso i soliti schemi cui siamo abituati. E nei gesti di Papa Francesco possiamo già leggere cosa sarà il tempo futuro». 
Il gesto di Benedetto XVI ha gridato al mondo che il valore di ogni singolo io non coincide con il ruolo che riveste, smascherando l’impasse strutturale del potere, la falsità della sua pretesa onnipotenza.
«L’umano è segnato da una falla irreparabile — scrive Ricci — una falla da cui non c’è rimedio. Per dirla meglio: i danni peggiori si compiono credendo che possa esserci rimedio, che si possa guarire da questa falla. Otturarla, dimenticarla, anestetizzarla, aggirarla, sconfessarla. Le cosiddette “nuove patologie” del nostro tempo costituiscono prevalentemente le coniugazioni delle varianti cliniche, soggettive, di questi tentativi. Il predominio dell’informazione e della comunicazione viene esercitato a ciclo continuo gettando cemento su questa mancanza, ritenendo possibile riedificare una nuova Babele». 
Il reale, continua Ricci, è sempre altrove rispetto a quello che immaginiamo. È come l’apertura del vaso di Pandora da cui escono le figure più perverse di un immaginario che pretende di padroneggiare tutto; non più la “cosa pubblica” ma la caricatura della sua degradazione.