martedì 24 dicembre 2013

IL CITTADINO E' IL CONVOCATO di Giancarlo Ricci


Dal testo "L'atto e la storia" di G. Ricci pubblichiamo alcuni passi.


La nostra sembra  una civiltà che assume e rappresenta il proprio sintomo senza alcun sforzo effettivo rivolto ad articolare e a intendere. Si precipita a porre rimedio, dimenticando che è necessario un “tempo per comprendere” e un “momento per concludere”. L’impressione è che il concetto stesso di temporalità si sia ingarbugliato. In effetti a forza di definirsi post (postmoderno, post-industriale, post-umano…), i sottili fili del passato, del presente e del futuro si sono aggrovigliati.
Le logiche scientiste della promessa, gli anacronismi della vita quotidiana, il passatismo museografico della cultura e molti altri “contrattempi” della contemporaneità, hanno reso cieca ogni prospettiva di civiltà. Di fronte a questa cecità acefala le parole di Bergoglio risuonano come una vera e propria politica della civiltà: «Ognuno di noi deve recuperare sempre più concretamente la propria identità personale come cittadino, ma orientato al bene comune». E ancora di più in quanto: «Etimologicamente, cittadino viene dal latino citatorium. Il cittadino è il convocato, il chiamato al bene comune, convocato perché si associ in vista del bene comune. […] Per formare comunità ciascuno ha un munus, un ufficio, un compito, un obbligo, un farsi, un impegnarsi, un dedicarsi agli altri. Queste categorie, che ci vengono dal patrimonio storico-culturale, sono cadute in oblio, oscurate di fronte all’impellente spinta dell’individualismo consumistico che unicamente chiede, esige, domanda, critica, moraleggia e, incentrato su se stesso, non aggrega, non scommette, non rischia, non si mette in gioco per gli altri».
Davvero singolari queste considerazioni di Bergoglio quando ancora era vescovo di Buenos Aires. Il suo invito ai cittadini a “formare comunità” procede in un movimento che punta a resistere a quello che normalmente accade nelle società avanzate, cioè il disgregamento dei legami proporzionale all’individualismo narcisistico. Quest’ultimo pretende sempre di più: «Chiede, esige, domanda, critica, moraleggia […], non aggrega, non scommette, non rischia», commenta Bergoglio.

mercoledì 18 dicembre 2013

PAPA FRANCESCO E LA SUA RAFFINATA SEMPLICITA' di Silvia Ronchey


Pubblichiamo l'intervista a Silvia Ronchey a cura di Alessandro Zaccuri uscita su l'Avvenire (5.11.13) 
con il titolo "Raffinata semplicità".
Per leggere l'intervista completa:

«Un Papa di meravigliosa semplicità e di straordinaria raffinatezza» sintetizza Silvia Ronchey. «Ogni sua azione, ogni sua parola si presta a una duplice lettura», aggiunge.
Lei che cosa preferisce: la semplicità o la raffinatezza?
«Non sono separabili l’una dall’altra – risponde –. Lo si è capito subito, fin dal momento in cui papa Bergoglio si è affacciato dalla loggia della basilica di San Pietro. Quell’inginocchiarsi davanti al popolo, quel chiedere la benedizione dei fedeli erano gesti talmente trasparenti da non esigere, in apparenza, alcuna spiegazione.(...). 
Quali prospettive si aprono, secondo lei?
«Una interna alla Chiesa stessa, nella direzione di una ritrovata collegialità, lungo la linea indicata già dai Padri orientali e poi ripresa dal Concilio Vaticano II. Nessuna deriva “modernista” in questo, semmai la volontà di riappropriarsi della tradizione in tutta la sua forza vitale e innovatrice. Lo si comprende, per esempio, dall’apprezzamento di Francesco per il tomismo autentico, contrapposto al “tomismo decadente” degli ultimi decenni. C’è una genialità del pensiero cristiano che occorre preservare, non per opporsi alla tradizione, ma per permettere che la tradizione apra spazi ulteriori (...)».
Un desiderio che ora trova realizzazione?
«Direi di sì, per quanto in prima istanza Francesco, a differenza del suo predecessore, non sia un teologo ma un pastore. Eppure il sottotesto dei suoi comportamenti è precisissimo anche dal punto di vista concettuale. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che Bergoglio proviene da un contesto nel quale la durezza del vivere si impone con una forza tale da rendere immediato il ricorso alla prassi pastorale».
E verso l’esterno?
«Anche in questo caso le prospettive vanno di pari passo, si intrecciano. Una Chiesa cattolica capace di recuperare in modo creativo le proprie origini è, coerentemente, una Chiesa che si pone in dialogo con le altre confessioni cristiane, prima fra tutte quelle orientali. L’incontro tra Francesco e il patriarca Bartolomeo è stato, dal mio punto di vista, un evento la cui portata deve ancora essere apprezzata nella sua pienezza. (...). Un intreccio vertiginoso, che però lascia intendere quanto il ritorno alle origini sia portatore di innovazione».
Francesco parla spesso del ruolo della donna...
«Parla di “genio femminile”, per l’esattezza, ed è un’espressione bellissima, che rimanda a Goethe e all’“eterno femminino” cantato nel Faust. L’ho detto e lo ripeto: questo è un Papa irresistibile per i media, ma il suo non è un messaggio mediatico. I riferimenti culturali sono innumerevoli, si va Hölderlin a Borges, spesso con la mediazione di Ignazio di Loyola».

giovedì 12 dicembre 2013

L'ATTO DI BENEDETTO XVI E L'ESORDIO DI FRANCESCO di Tiberio Crivellaro


Pubblichiamo l'articolo di Tiberio Crivellaro uscito nella pagina culturale del quotidiano LA SICILIA (9.12.13) con il titolo "Ratzinger iniziatore di una era nuova". 

L'atto dimissionario di Papa Benedetto XVI, l'11 febbraio di quest'anno è da considerare come rinuncia, abdicazione irresponsabile pro tempore? Colpisce non poco la tendenza dei media di considerare quest'evento assimilabile alle categorie della negazione, dato che, nell'attuale società dell'indifferenza, pare che sofferenze e lacerazioni siano oggetto di spettacolarizzazione.


Si rappresenta il dolore con lacrime, grida, abbracci strazianti; la morte con appalusi. Una cultura dell'intrattenimento confezionata per evitarci di leggere la realtà. A partire dallo sguardo radicale di Ratzinger su una devastante contemporaneità, lo psicanalista Giancarlo Ricci nel suo libro «L'atto, la storia - Benedetto XVI, Papa Francesco e la fine del Novecento» (Ed. San Paolo), dà una sua particolare lettura dei disastri soggettivi e le loro metamorfosi per aggirare la verità. Ricci, invita a considerare l'atto di Ratzinger come enunciazione del fatto che esso decide di non continuare ad assumere «l'impotenza della sua funzione», ma bensì di rimandarla al mittente. Senza tuttavia, «scendere dalla croce». Si assoggetta a quest'atto assoluto costringendo i poteri laici e religiosi che hanno realizzato lo smarrimento della ragione a fare i conti con la così detta realizzazione dei "massacri" e della morte a favore dell'Economia e del libero arbitrio biologico, biotecnologico.
  Ratzinger non si assume la responsabilità di rattoppare questi squarci. Secondo Ricci, è questo un tempo non cronologico ma logico, che determina la fine del Novecento. Benedetto, col suo atto fa crollare un muro epocale. Epoca prolifica di patologie legate alle dipendenze, ai consumi sfrenati che producono catene montuose di rifiuti. Un contesto che favorisce il fantasma di immortalità travestito con la sfarzosità del progresso. Forse per questo, il nuovo Papa potrebbe essere il primo di una nuova serie di Pontefici. Jorge M. Bergoglio, ancor prima di essere eletto, asseriva che: «Oggi ci troviamo in mezzo a un'interruzione…» a un nuovo passaggio dove la scena non è più la stessa.

martedì 10 dicembre 2013

UNA LEZIONE DI LAICITA' di Salvatore Veca


Pubblichiamo l'intervista a SALVATORE VECA 
(autore di Un'idea di laicità, Il Mulino) 
a cura di Alessandro Zaccuri 
uscita sull'Avvenire il 31 ottobre 2013.
Per l'intervista completa vai a:

Sta dicendo che dal Papa viene una lezione di laicità?
«La laicità, intesa nel suo significato più autentico, appartiene al cristianesimo in modo irrinunciabile e costitutivo. Per rendersene conto basta ascoltare l’esperienza di tanti parroci, di tanti sacerdoti che stanno vicini alle persone nei loro drammi e nei loro bisogni più profondi. È l’esempio dato da Francesco, appunto: non esporre agli altri la dimostrazione delle ragioni per cui sarebbe legittimo o sensato credere, ma rendere evidente che c’è una vita spesa e vissuta, in concreto, sulle ragioni della fede».

Per questo l’invito al dialogo risulta così convincente?
«Anzitutto questo sgombra il campo da una retorica, come dire?, diplomatica. Quella per cui si invoca il dialogo e ci si richiama a una generica melassa di valori comuni, evitando però di prendere sul serio le differenze su ciò che è fondamentale nella vita di ciascuno. L’insistenza di papa Francesco sulla verità vissuta come relazione, e non imposta come astrazione, conduce verso questo orizzonte di serietà, oltre che di precisione concettuale».

In che senso?
«Legare la verità all’esperienza della verità è tema cristiano, e anzi cristologico, per eccellenza. Ma anche al di fuori di una prospettiva di fede rappresenta un monito a non considerare la verità come qualcosa che possa essere pronunciato dall’esterno. La verità sta sempre nella partecipazione, nello stare in mezzo agli altri, praticando una lealtà che è dovuta in primo luogo a se stessi. Troppe volte abbiamo assistito a una confusione di piani più o meno volontaria, per cui il modello della verità scientifica viene applicato in maniera surrettizia a contesti di tutt’altro tipo. Le leggi della fisica sono vere in quanto verificate, non c’è dubbio. Però non sono sullo stesso piano di un’affermazione come “Io sono la via, la verità e la vita”».

È una distinzione solo teorica?
«Niente affatto. A nessuno può essere richiesto di venire meno a una convinzione di fede. Questo equivarrebbe a un’ingiunzione tirannica e sarebbe, inoltre, la sconfessione della verità come principio pluralista. Il che non significa, lo ripeto, che ogni asserzione può essere scambiata con qualsiasi altra. Vale semmai l’opposto: proprio perché la verità deve essere perseguita in ambiti diversi, diventa particolarmente urgente interrogarsi su che cosa significa l’incontro con Qualcuno che è la verità».

Torniamo all’origine religiosa delle libertà civili?
«O forse approdiamo alla misericordia come modello autentico di una convivenza basata sulla serietà delle proprie convinzioni e sull’attenzione appassionata per le convinzioni degli altri. Nel caso di papa Francesco si citano molte ascendenze, molte similitudini. Quella che personalmente mi colpisce di più riguarda un altro grande gesuita vissuto nel XVI secolo. Penso a Matteo Ricci, nel quale i cinesi riconobbero un amico venuto da lontano per trovare nuovi amici. Ecco, esattamente questo è lo stile di Francesco, lo stile della laicità».

venerdì 29 novembre 2013

TORNARE ALL'ORIGINE di Umberto Curi


Editiamo alcuni brani dell'intervista al filosofo Umberto Curi, 
autore di L'apparire del bello (Bollati Boringhieri). 
L'intervista "Tornare all'origine non al passato", 
a cura di Alessandro Zaccuri 
è uscita su L'Avvenire il 29.11.13.
Per l'intervista completa vai a: 

Papa Francesco è un cercatore?
«È un uomo dotato della straordinaria capacità di combinare tra loro la necessità di un forte rinnovamento all’interno della Chiesa e il recupero del messaggio evangelico nella sua genuinità originaria. Si tratta di un’apertura al futuro che fa leva sulla profezia e non si rinchiude, come talvolta è accaduto, nel mero rispetto di una regola morale.
Particolarmente rivelatrice mi pare l’insistenza sul valore della misericordia, che del resto è l’asse portante del Discorso della Montagna. (...)».

Francesco si presenta come il Papa dell’essenziale.
«Infatti, per il credente l’essenziale è questo: la fede e non la religione, mi verrebbe da dire. La stessa semplicità dei gesti e dell’eloquio di Bergoglio possono essere interpretati come un richiamo a non separarsi dall’essenza della fede, che si esprime in pienezza quando si incardina nel comandamento dell’amore: per sé, per il prossimo, addirittura per il nemico».

In questa essenzialità c’è molta teologia, non trova?
«Dobbiamo intenderci sui termini. Già dal punto etimologico, la teologia sta sul crinale di una pretesa impossibile. Il discorso (logos) su Dio (Theos) non può mai compromettere il momento originario e fondativo della fede. Molti interventi di papa Francesco mi pare che vadano per l’appunto nella direzione di una ricerca appassionata, che non riduce mai la verità a qualcosa di cui si possa rivendicare il possesso».

Nessun sapere può illudersi di bastare a se stesso, dunque?
«Prendiamo il caso della bellezza. Nel pensiero greco classico non è affatto una pura armonia delle forme da contemplare in modo distaccato e, per così dire, “estetico”. Questa è un’invenzione moderna, della quale ha fatto in parte giustizia Nietzsche richiamando l’importanza dell’elemento dionisiaco, irrazionale, che per gli antichi era complementare alla compostezza dell’apollineo. In senso più generale, nel pensiero greco la bellezza è sempre posta in relazione con altri valori di ordine etico e ontologico. Ed è per questa via che il bello viene a convergere con il buono e con il vero. Il recupero della genuinità originaria, così spesso invocato da papa Francesco nei suoi interventi, richiede un’analoga disponibilità ad andare al cuore di ogni questione, rinunciando alle sovrastrutture che rendono opaca la nostra esperienza».

giovedì 28 novembre 2013

LE MASCHERE DELLA CONTEMPORANEITA' di Giancarlo Ricci

Pubblichiamo alcuni passi di un'intervista a G. Ricci 
in occasione dell'uscita di "L'atto la storia". 
"Se consacrare (sacrare) era il termine che designava l'uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significava per converso restituire al libero uso degli uomini" 
(G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo) 


Quali sono le tematiche che ritiene più problematiche oggi? 
Le società attuali sono sempre più complesse. La nostra in particolare, abitata da anacronismi, da contrapposizioni, da personalismi, da chiusure culturali che utilizzano di volta in volta le solite maschere dell’ideologia, della demagogia, del pregiudizio.  Per esempio l’uso di un certo laicismo divenuto ormai una vera e propria professione di fede, la diffusione della “dittatura del relativismo”, la necessità neoliberistica di imporre l’obbligo al consumismo senza limiti, il dissolvimento dei tradizionali legami sociali.

Sono temi caldi, roventi. Dal mio punto di vista ho proposto una sorta di carrellata a volo radente, in cui ho evidenziato come la società del nostro tempo attui una negazione della soggettività, favorisca l’omologazione, promuova i diritti soltanto per cercare consenso.

C’è qualcosa di avvilente in tutto ciò. Questa chiusura verso un futuro possibile, ha qualcosa di mortifero. Anche se non sono uno storico, propongo di leggere il gesto di Ratzinger come un gesto che chiude il Novecento, che attua una cesura storica. E’ terminato il tempo per comprendere. Ciò che ci attende nei prossimi anni, ci costringerà a inventare un nuovo modo di coniugare l’etica con i temi cruciali della civiltà, della scienza, della tecnologia. C’è anche urgenza di un altro concetto di politica in grado di fronteggiare con dignità e giustizia le scommesse dei nostri tempi. Altrimenti saremo costretti a sopravvivere in una società di macerie e di relitti, in cui tutto è possibile, anche il disorientamento eretto a sistema.  

Quali prospettive intravvede all’orizzonte? 
Accorgersi e nominare ciò che non funziona è già un buon passo. Il libro si struttura come due atti teatrali: l’uscita di scena di Ratzinger e l’arrivo di Bergoglio. L’entrata in scena di Papa Francesco con la frase “vengo dalla fine del mondo” mi è sembrata riassumere in modo straordinario un pensiero nuovo, forte, deciso. La scelta per il nome Francesco, il tema della povertà, l’attenzione rivolta agli ultimi, ai giovani, ai minori mi sembrano esempi in difesa della civiltà, di tutta la civiltà. Avverto in Francesco una sensibilità che sa cogliere con lungimiranza i veri nodi critici della società.
Ecco un punto importante: tutto ciò non coinvolge solo i cosiddetti credenti o coloro che si riconoscono come cattolici, ma riguarda ciascuno, anche i laici. Ormai viviamo in tempi in cui ciascuno non può fare a meno di confrontarsi con un’epoca sulla soglia di mutamenti vertiginosi oggi impensabili. Occorre molto di più che la tolleranza. La posta in gioco infatti è il destino della civiltà e l’esistenza dell’umano. I loro scenari antropologici e biopolitici  ormai ci interrogano con inquietudine. 

SFIDA AL GRANDE INQUISITORE di Franco Cassano


Riproduciamo alcuni passi dell'intervista al sociologo 
Franco Cassano (autore di L'umiltà del male, Laterza 2011)       
a cura di Alessandro Zaccuri. 
L'intervista "Il grande sud sfida il Grande Inquisitore"
 è uscita su L'Avvenire (27.11.13).


Dio non gioca a dadi, d’accordo. Però ogni tanto la Chiesa, ludicamente parlando, si prende il lusso dello spariglio. «La mano di carte che scompiglia il tavolo, ha presente?», spiega il sociologo Franco Cassano, che da Bari, a metà degli anni Novanta, lanciò la sfida del «pensiero meridiano» (...). «E’ arrivato papa Francesco, che del Grande Inquisitore è l’esatto contrario. All’esibizione di autorità preferisce l’ammissione della debolezza, all’uso strumentale del mistero oppone l’esercizio dell’umiltà. 

È questo lo spariglio?
«Anche questo, sì. Ma non soltanto. Al momento dell’elezione di Bergoglio e subito dopo, quando ha iniziato a delinearsi il profilo del suo pontificato, mi sono ritrovato a pensare: “Guarda un po’ che riesce ancora a combinare la Chiesa…”. In una fase in cui tutto l’Occidente, e in particolare l’Europa, sembrano intrappolati in uno stato di depressione, timorosi come sono di perdere i privilegi di cui hanno goduto negli ultimi secoli, ecco un Papa chiamato “quasi alla fine del mondo”, grazie al quale la prospettiva si rovescia bruscamente. Dal punto di vista storico è la fine dell’eurocentrismo, ma in senso più largo è un invito, molto insistente, rivolto alla cultura laica, che non può più accontentarsi di lamentare la fine di un’epoca. Se l’Europa è a corto di speranza, e l’Italia è ancora più in affanno degli altri Paesi, in gran parte del mondo l’orizzonte del futuro è tutt’altro che consumato. Il Papa viene da queste terre, da un continente vivacissimo come l’America latina. E ci dice, in tutta semplicità, che la storia non è finita. Che la speranza, dunque, è ancora possibile».

Questo che cosa comporta?
«Anzitutto l’assunzione di una tradizione che finora l’Occidente ha trascurato, se non addirittura ignorato. Sono le tematiche del Grande Sud del pianeta, risorsa straordinaria anche sul versante simbolico. L’importante, dal mio punto di vista, è che questo accade con un cambio di passo nella Chiesa. Sintetizzando al massimo, direi che tutto si decide nel rapporto con la modernità. Posso usare un’altra espressione relativa al gioco?»

Certo.
«Con Francesco la Chiesa non sta più in difesa, ma passa all’attacco. Lo fa in maniera diretta, senza alcun complesso di inferiorità verso un pensiero che, di conseguenza, è invitato a riconsiderare se stesso, in tutta la sua ampiezza e in ogni sua contraddizione. Quando il Papa, per esempio, svolge una critica all’utilitarismo, un intellettuale non può non revocare in dubbio la visione per cui il liberismo sarebbe l’unico paradigma fondante dell’agire economico. Ci sono molti aspetti del pensiero moderno che richiedono una specifica assunzione di responsabilità. Ne cito soltanto due, che ritengo cruciali: la deriva dell’individualismo da un lato e il rifiuto del limite dall’altro. Su entrambe le questioni l’insegnamento di Francesco è chiaro, puntuale e non equivocabile».

mercoledì 20 novembre 2013

LA COSCIENZA AL POTERE. Intervista a Luigi Zoia

Pubblichiamo alcuni passi dell'intervista di Alessandro Zaccuri allo psicoanalista Luigi Zoia 
(autore del recente Utopie minimaliste, Ed. Chiarelettere). L'intervista è uscita sull'Avvenire del 9 novembre. 

Ha nostalgia di un Papa più remoto e regale?
«Al contrario, vorrei che Francesco percorresse fino in fondo la strada del dialogo, dimostrando così la continuità profonda tra il suo pontificato e quello del predecessore. La rinuncia di Benedetto XVI ha avuto e continua ad avere una portata enorme. È un gesto senza precedenti, che obbliga la Chiesa a confrontarsi con il nodo del potere. Che è potere economico, certo, e quindi ben venga la trasparenza degli enti finanziari legati alla Santa Sede. Allo stesso modo non può più essere rimandata la purificazione di quanto attiene alla sfera degli abusi sessuali.
Un’iniziativa, anche questa, che risale a Benedetto XVI e che Francesco ha ora il compito di portare fino in fondo, con tutta la delicatezza che un’azione del genere comporta. Ma il punto cruciale non è neppure questo».

Qual è, allora?
«Posso permettermi una provocazione laica e niente affatto laicista? La questione da risolvere riguarda il dogma dell’infallibilità. So benissimo che questo riguarda solo i pronunciamenti ex cathedra, ma nondimeno è il Papa stesso, quando si chiede “chi sono io per giudicare?”, a introdurre un elemento di dubbio o, se si preferisce, di possibilità. Si potrebbe rispondergli che è per definizione l’infallibile, colui che “deve” giudicare per correggere l’uomo, il quale è invece fallibile; oppure fargli notare che si sta spogliando di una prerogativa “imperiale”. La rinuncia all’infallibilità sarebbe la dimostrazione che il Papa è infallibile, almeno in quel momento. Sarebbe una spoliazione dalla forma più insidiosa e rigida del potere, con un’iniziativa veramente degna di Francesco d’Assisi».


Sì, ma un dogma non si può abrogare.
«Se il Papa è infallibile in materia di dogmi, dovrebbe esserlo anche nel momento in cui proclama che l’infallibilità non è più necessaria. Ciò richiama un’altra delle categorie predilette da Francesco, quella che forse più di ogni altra fonda la legittimità del dialogo».

Che cosa intende?
«L’appello alla coscienza, che non a caso è un tema decisivo per la stessa psicoanalisi. Vede, in italiano traduciamo come “coscienza” due diversi termini analitici tedeschi. Il primo, Bewusstein, descrive la consapevolezza intellettuale, mentre il secondo, Gewissen, è la coscienza morale. Per tradizione la mentalità italiana è incline a questa seconda tipologia, spesso declinata come adesione a una norma. È, direi, la versione cattolica della coscienza. A dover essere rivalutato è l’altro elemento, più presente nelle culture di matrice protestante, ma non solo in esse. Una coscienza consapevole, e quindi concreta, è stata tipica dell’opera dei gesuiti in America Latina, tra l’altro. E Francesco è un gesuita latinoamericano, giusto?».


lunedì 18 novembre 2013

NON SI DIVENTA UOMINI SENZA DECIDERLO di Silvano Petrosino


Intervento di Silvano Petrosino (Milano, Centro San Fedele, 7.11.13) in occasione della presentazione del libro
 "L'atto la storia" di G. Ricci.

vai al video su YOU TUBE: http://youtu.be/1lTLyPzyPcs 

Sono rimasto colpito da questo libro; mi sembra un contributo che porta alla riflessione sulla vicenda del papa ma anche, in generale, sul nostro tempo. Mi sono soffermato sul concetto di atto che nell’interpretazione che ne dà l’autore viene presentato come atto psicoanalitico. Riprendo solo due righe dal libro: “Quello di Ratzinger - scrive Ricci  - è stato un atto analitico”. E prosegue:  “L’atto in psicanalisi ha una particolare rilevanza: esso effettua  uno spalancamento che consente a un frammento di verità di  prendere voce, per esempio nel lapsus, nel sogno, nella dimenticanza. L’atto comporta  l’emergenza di una verità rimasta  latente, dà voce a pensieri inconsci che erano silenti”. 
L’idea da cui prende le messe è che le dimissioni di Benedetto XVI costituiscano un atto di questo tipo. Ora, rispetto a che cosa? Quale sarebbe il punto di verità che emerge? Sono d’accordo con Mussapi nel dire che è un’interpretazione assolutamente laica. Spero che nessuno si lasci prendere dalla divisione tra credenti e non credenti; il discorso dell’autore ha una pretesa veritativa che va al aldilà del rapporto tra credenti e non credenti. Quale sarebbe dunque il punto di verità che emerge? Per l’autore è in questi termini: “L’atto si affaccia sull’alterità, la chiama a manifestarsi”. E parlando del gesto di Benedetto, prosegue: “Dal punto più alto della responsabilità non rispondo più della vostra assenza di responsabilità e io stesso mi espongo senza sottrarmi alla responsabilità di attuare un atto che lascia in sospeso l’attribuzione di responsabilità”. Mi sembra una formulazione felice e, anche in seguito, il testo prende un respiro interessante. Cerco di dire come l’ho intesa io. 
La nostra è una società a capitalismo avanzato, di consumismo o di tecnonichilismo come è stato detto, è un insieme in cui si mischia il processo di secolarizzazione e di avanzamento tecnologico. Se dovessi dire velocemente in che cosa consiste il pericolo maggiore di questa società direi che è l’idea che si possa costruire una società in cui non è più necessario essere buoni. Costruire una società con un tale meccanismo e una tale perfezione, con questa ingegneria degli interessi che alcuni identificano nella politica, con questo equilibrio assoluto rappresentato dalla tecnologia, dalla mappatura del genoma umano, dal cognitivismo, è una sorta di delirio, sarebbe, in termini psicanalitici, dell’ordine del delirio. Sarebbe una società in cui non è necessario essere buoni,  in cui la convivenza tra gli uomini non trova più fondamento in una decisione libera dell’uomo. 

SULLA DESACRALIZZAZIONE DEL MONDO di Roberto Mussapi


Pubblichiamo la trascrizione dell'intervento di Roberto Mussapi in occasione della presentazione del libro "L'atto la storia" di G. Ricci (Milano, Centro San Fedele, 7.11.13)



Questo libro mi ha subito colpito. Per me rappresenta un punto di riflessione importantissimo su una questione di fondo, su cui lavoro, opero e combatto come poeta da decenni: riguarda lo status della poesia e dell’arte nell’occidente e specificamente in Italia. Il problema è quello della desacralizzazione del mondo avvenuta in occidente, con tutto ciò che comporta. Per esempio la nascita esponenziale di avanguardie nichiliste, un panorama di desolazione e nello stesso tempo di sperimentalismo linguistico fine a se stesso. Questo è il primo motivo di attenzione forte che mi spinge a questo libro che parla, sia ben chiaro, di due papi. Volevo subito mettere in luce che non sono esperto di papi, non sono un vaticanista, sono un tifoso di Wojtyla, un papa che era un grande nuotatore, un grande drammaturgo e un grande poeta, tre qualità olimpiche. 

Il libro parla di due papi ma compie una riflessione fondamentale sulla crisi del novecento con le sue ripercussioni sul nuovo secolo e sul nuovo millennio. Attraverso questa vicenda drammatica di due papi in realtà l’autore fa una grande riflessione sullo svuotamento del novecento e sulla necessità di una rigenerazione. Il punto di partenza dell’autore è laico e pertanto quando parla di questi argomenti non pretende delle conoscenze specifiche e non cerca delle simpatie specifiche; è un uomo che riflette sulla situazione culturale del nostro tempo. Questo è un libro importante. Ricci ha scritto altri libri importanti ma erano più legati alla psicanalisi o a temi che non rientravano nelle mie competenze.  Questo invece è un libro da cui mi sento chiamato in causa. Perché il problema di fondo del novecento è una desacralizzazione del mondo che conduce poi, attraverso una genesi continua di piccoli sperimentalismi, a un depauperamento di ogni valore di potenza dell’espressione umana, non solo di quella artistica  ma in generale viene privato di senso ogni atteggiamento creativo, per esempio la sacralità del lavoro dell’artigiano. Il senso creativo scompare ad esempio nella cultura televisiva, nella selezione televisiva degli autori e degli argomenti, ma simultaneamente scompare anche nella vita quotidiana. 

martedì 12 novembre 2013

E BENEDETTO SALVO' IL XX SECOLO di Vincenzo Faccioli Pintozzi



Pubblichiamo la recensione di Vincenzo Faccioli Pintozzi 
uscita (12.11.13) sul giornale on line succedeoggi 
al libro di G. Ricci "L'atto la storia" (Ed. San Paolo)

La rinuncia di un Papa che non solo non è rinunciatario, ma che accetta di farsi “zolla sotto le zampe di bisonti”, è il momento fondante del nostro tempo. Più delle Torri gemelle, più del Muro di Berlino. Perché ci ha consegnato la possibilità catartica di fermarci. Per poi ripartire...
L’immagine più bella è quella di un Papa, considerato dal mondo laico e cattolico uno dei “potenti della Terra”, che si fa zolla. Zolla che viene calpestata da una mandria di bisonti, ovvero coloro che «del loro ottuso scempio fanno notizia». Giancarlo Ricci usa una metafora di Blake, citando anche l’ottimo Roberto Mussapi, per dare forza all’atto fondante che ha chiuso il secolo scorso e ha aperto la porta non solo all’elezione di un nuovo Papa ma a una sorta di catarsi collettiva. Ovvero la rinuncia di Benedetto XVI, che lo psicanalista ha analizzato ne L’atto, la storia. Sono 88 pagine densissime – e in questo caso è un complimento – edite dalla San Paolo, che guardano con occhio clinico al momento in cui il pontefice tedesco ha annunciato di volersi ritirare dallo sguardo del mondo.
Nel testo, Ricci sostiene che a lanciare la scrittura sia stata la lettura dei commenti – migliaia, da ogni parte del mondo – che cercavano di dare un senso alla rinuncia del pontefice. «Qualcosa strideva – scrive all’inizio – e mi convincevo sempre più che l’indugiare su aspetti personalistici (la stanchezza, la fatica, l’età) fosse un modo per sviare e soffocare altre considerazioni ben più sostanziali e rilevanti. Avvertivo insomma il tentativo di spegnere un’istanza forte e potente, quella che si concretizzava mediante un atto, che credo abbia voluto gettare uno sguardo differente e radicale su questa nostra contemporaneità tanto devastata. Non solo: l’atto di Benedetto mi sembrava contenere una forza sovrumana. Quasi un monito, un grido: vi accorgete cosa sta accadendo attorno a voi?».

venerdì 25 ottobre 2013

Recensione a "L'atto la storia" di ROBERTO MUSSAPI


Pubblichiamo una parte della recensione 
del poeta e scrittore Roberto Mussapi dal titolo 
"Se Benedetto apre il mondo al nuovo secolo" 
al libro "L'atto la storia". (L'Avvenire, 19.10.13)



" (...) Ora [Ricci] scrive una delle più libere e acute riflessioni che io abbia letto di recente sul senso del sacro, della vita e della loro necessaria resistenza nel nostro mondo occidentale cristiano. Occidentale e cristiano a parole, anticipando l’esito del saggio, essendo stati erosi i valori etici fondanti dell’Occidente e del Cristianesimo. Da sempre sostengo la dannosità della lettura rigidamente psicanalitica del mondo, delle letteratura e dell’arte, ma la mia critica riguarda il fondamentalismo, il dogmatismo di tanta, troppa cultura psicanalitica, imperversante per decenni. Quando gli strumenti psicanalitici interagiscono con altri, come ad esempio in Starobinski, allora è tutta un’altra storia. Come in questo caso, dove il titolo non mente: si parla di un atto che segna e modifica la storia, le dimissioni di papa Benedetto XVI. E il sottotitolo sintetizza un’epopea in due nomi e un concetto: il nome del papa che si ritira, quello del nuovo pontefice che giunge “dalla fine del mondo”, e la conseguente fine del Novecento, secolo del dominio relativistico, della desacralizzazione, di conseguenza dell’angoscia.

Libro denso e fascinoso, ricco e quindi difficile da sintetizzare. Proviamo a riassumerlo, al volo, rapiti dalla felicità delle immagini, dalla lucidità adamantina dello stile, dalla mercurialità wildiana delle intuizioni. Soprattutto dall’eticità da cui nasce questa difesa dell’Homo religiosus, qui e ora. Le dimissioni: Ricci vive come un’offesa l’attribuzione di queste a pure ragioni personali, stanchezza e salute, pur riconoscendo che possono concorrere. Ma la loro essenza è quella di un atto capitale, coraggioso, esemplare: la rinuncia al potere, l’umiliazione del proprio io di fronte alla comunità dei viventi. Dimettendosi Benedetto si umilia, si manifesta servitore eroico della fede. In un mondo che razionalisticamente irride ogni manifestazione del sacro e si genuflette al profitto, il Papa mette in opera la potenza dell’Atto.  Svuota il vuoto, crea una rottura, uno spazio: Francesco, presentandosi, afferma di venire da lontano, “dalla fine del mondo”. Ma da una terra oltreoceano, sottolinea Ricci, terra di esilio, battuta da venti, estrema. Sì, viene dalla fine del mondo e nella benedizione inizia a parlare nella sua lingua argentina, il gesto più naturale, viscerale, intimo: sa che questa benedizione non è spiegabile, sarebbe comunque incomprensibile al vaglio del razionalista. Il mondo, scrive Ricci, non sarà più lo stesso: con metafore da narratore di razza: il “Crollo” (Babele, il muro di Berlino, le Twin Towers) il “Collaudatore” (che valuta la struttura e la tenuta dell’edificio, non gli ornamenti, e se necessario lo fa evacuare), il “Farsi zolla”, il “Non scendere dalla croce”: una vena lucidamente visionaria anima questo breve e compiuto libro scritto da un laico in difesa del sacro e dell’anima, e in onore di due grandi figure della cristianità".

mercoledì 16 ottobre 2013

Presentazione del libro L'ATTO LA STORIA di Giancarlo Ricci

Giovedì 7 novembre, ore 18
presso GALLERIA SAN FEDELE, via Hoepli 3 b, Milano

conversazione sul libro di Giancarlo Ricci
L'ATTO LA STORIA. BENEDETTO XVI, PAPA FRANCESCO E LA FINE DEL NOVECENTO (Ed. San Paolo)

intervengono:
ROBERTO MUSSAPI
SILVANO PETROSINO
GIANCARLO RICCI

Il Novecento non è terminato con il crollo del muro di Berlino, né con quello delle Torri Gemelle. E’ stata la decisione di Benedetto XVI di lasciare il pontificato a chiudere il secolo scorso trascendendo la storia della Chiesa. 
   Quell’atto ha messo un punto, ha posto un sigillo: quanto accadrà prossimamente non potrà essere interpretato attraverso gli schemi cui eravamo soliti, e nei gesti di papa Francesco possiamo già leggere cosa sarà il tempo futuro. 
   Lo sguardo di uno psicanalista scruta la vertigine di una decisione senza precedenti esplorando le forme attuali del disagio della civiltà in un tempo che si affaccia sulla soglia di un mutamento epocale. 

domenica 6 ottobre 2013

IL MISTERO DEL MALE di Giorgio Agamben


Pubblichiamo alcuni passi, che riteniamo essenziali, tratti dal libro di GIORGIO AGAMBEN, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi (Ed. Laterza, 2013). 
Questo suo lavoro è una lettura storica del gesto di Benedetto XVI di lasciare il pontificato, ma anche una radicale interrogazione intorno alla contemporaneità e ai suoi paradossi. Legalità e legittimità non giungono a sovrapporsi.   

“Se questo gesto [le dimissioni di Benedetto XVI] ci interessa, non è certo soltanto nella misura in cui rimanda a un problema interno della Chiesa, quanto piuttosto perché esso permette di mettere a fuoco un tema genuinamente politico, quello della giustizia, che, al pari della legittimità, non può essere eliminato dalla prassi della nostra società. Noi sappiamo perfettamente che anche il corpo della nostra società politica è, come quello della Chiesa e forse ancora più gravemente, bipartito, commisto di male e di bene, di crimine e di onestà, di ingiustizia e giustizia. […]"

"Nella prospettiva dell’ideologia liberista oggi dominante, il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quello della giustizia e si finge di poter governare una società sempre più ingovernabile secondo criteri esclusivamente tecnici”. 
  “Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave, è perché  essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto, come si ripete troppo spesso, le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima”. 
  “L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce anzi, attraverso un eccesso di legalità formale, la perdita di ogni legittimità sostanziale. Il tentativo della modernità di far coincidere legalità e legittimità, cercando di assicurare attraverso il diritto positivo la legittimità di un potere, è, come risulta dall’inarrestabile processo di decadenza in cui sono entrate le nostre istituzioni democratiche, del tutto insufficiente”. 

martedì 1 ottobre 2013

CONTEMPORANEITA', di Giancarlo Ricci

Pubblichiamo alcuni passi dal libro L'ATTO LA STORIA 
di Giancarlo Ricci

La contemporaneità, con il suo capitalismo tecno-nichilista, sembra convinta che sia sufficiente sopravvivere, sopravvivere senza alcun progetto rivolto al futuro. Si sopravvive, invece che vivere, quando un progetto relativo al futuro viene meno, quando svanisce lo sguardo lontano rivolto a coloro che verranno. Senza questo sguardo svanisce la testimonianza, l’idea di patrimonio e di eredità, di filiazione, vacilla la funzione stessa di padre. Sparisce l’istanza del debito simbolico e pertanto ciò che abbiamo ricevuto possiamo dissiparlo, bruciarlo nel tempo di un godimento senza desiderio. Oggi è il tempo bulimico del godimento del tutto e subito. 
In questo contesto la psicanalisi è chiamata a intervenire, a precisare e a rendere evidenti le implicazioni soggettive, sociali e culturali del rischio che tale espunzione comporta. Probabilmente siamo già oltre simile rischio. La mappa con cui credevamo di poter procedere a passo spedito non corrisponde più a quanto accade. 
L’Occidente in effetti non ha più il ruolo storico che gli spettava anche solo pochi decenni fa, non soltanto per una questione economica, per l’ampliarsi di nuovi e agguerriti mercati, ma anche per lo sfaldamento di una cultura e di una civiltà che non riesce più a parlare la lingua del presente e pertanto nemmeno quella del futuro. Occidentali disorientamenti? Il nostro tempo stenta a disegnare un’illusione dell’avvenire, proprio per il fatto che un’avvenire dell’illusione appare opaco e difficilmente progettabile. Questa incapacità non è casuale. Si tratta dell’effetto prevedibile di una prolungata e organizzata sconfessione. Quando un individuo o una civiltà non ha più memoria di sé, non può progettare alcun futuro.

mercoledì 28 agosto 2013

LO PSICANALISTA E LA STORIA di Giancarlo Ricci


Pubblichiamo la seconda parte dell'introduzione 
a L'atto la storia di Giancarlo Ricci

Benché il nostro tempo lo sospinga sempre più negli angoli dell’impotenza affievolendone la voce, lo psicanalista dovrebbe assumere la funzione di rilanciare incessantemente una riflessione intorno alle forme contemporanee del disagio della civiltà, ai suoi punti più critici e problematici. Dovrebbe essere insomma colui che pone in primo piano l’etica, il destino della soggettività e il contesto della comunità in cui essa esiste e opera. Per promuovere un “lavoro di civiltà” (Kulturarbeit) occorre pure che lo psicanalista entri in merito, si getti nella mischia, si esponga mostrando l’Altro volto delle cose e delle parole. Occorre in definitiva che si faccia testimone del proprio tempo e all’occorrenza sappia raccontare qualcosa di differente in merito agli avvenimenti storici che gli accadono attorno.



Considerato nella sua perentorietà il gesto di Benedetto XVI mi è sembrato un atto psicanalitico, un atto che apre la via a un’interpretazione e che sconcerta, che scaturisce come “momento per concludere” e costringe a cambiare registro, a voltare pagina. Un atto che fa affiorare le cose sommerse che si sono mimetizzate sullo sfondo di scenari soggettivi e sociali. Un atto epocale dunque, talmente epocale da spingermi ad azzardare l’ipotesi che esso abbia scandito simbolicamente la fine del Novecento e che un‘intera epoca storica così sia giunta al tramonto. 
Infine, proprio questo contrappunto tra due tempi testimonia della posizione da cui scrivo, non essendo né storico, né sociologo, né antropologo, né giornalista, né vaticanista. La posizione è quella dello psicanalista. Ossia di colui che è dedito all’ascolto dei disastri soggettivi e delle loro metamorfosi, di storie difficili e anche delle incredibili pieghe che i soggetti architettano pur di aggirare le verità dell’inconscio. 

sabato 24 agosto 2013

ATTO ANALITICO di Giancarlo Ricci

Pubblichiamo qui di seguito la prima parte dell'Introduzione al libro L'ATTO LA STORIA di Giancarlo Ricci 
(Edizioni San Paolo, Milano 2013).

La migliore introduzione per questo saggio è la testimonianza di come i pensieri e le parole si siano fatti strada e su che cosa mi abbia spinto a mettere per iscritto quanto sentivo. L’occasione da cui ha preso avvio questo lavoro è stata quella di un’inquietudine feconda. Nei giorni successivi al gesto di Benedetto XVI - la scelta di lasciare il pontificato annunciata l’11 febbraio 2013 - una buona parte dei media insisteva nel presentare quella decisione come una rinuncia, una dimissione, un’abdicazione. 


Qualcosa strideva. Mi convincevo sempre più che l’indugiare su aspetti personalistici (la stanchezza, la fatica, l’età) fosse un modo per sviare e soffocare altre considerazioni ben più sostanziali e rilevanti. Avvertivo insomma il tentativo di spegnere un’istanza forte e potente, quella che si concretizzava mediante un atto, che credo abbia voluto gettare uno sguardo differente e radicale su questa nostra contemporaneità tanto devastata. Non solo: l’atto di Benedetto mi sembrava contenere una forza sovrumana. Quasi un monito, un grido: vi accorgete cosa sta accadendo attorno a voi

Non si trattava dunque di rinuncia - ho pensato - ma molto di più. Immensamente di più. Ecco, da questa opaca eccedenza qualcosa ha incominciato a scriversi; all’inizio attraverso qualche notazione, poi con connessioni, rinvii e assonanze sempre più ampie. La scrittura fluiva, cresceva, moltiplicava le interrogazioni e i pensieri, chiamava in causa ambiti sempre più estesi. Non senza recepire - devo riconoscerlo - alcuni riverberi del clima di sconforto che aleggiava nei giorni successivi alle elezioni del febbraio 2013. Mi è perfino sembrato che un filo sottile unisse il gesto di Benedetto XVI al tema dell’ingovernabilità. I due scenari, quello del “potere  spirituale” e del “potere temporale”, parevano sovrapporsi.