L'ATTO LA STORIA

Psicanalisi ed etica sulla soglia di nuovi scenari. Il racconto della nostra storia e l'istanza di giustizia psichica come lavori di civiltà.

martedì 15 aprile 2014

UNA DECISIONE SENZA PRECEDENTI. Intervista a G. Ricci

Sul suo libro l'atto la storia, G. Ricci viene intervistato 
da Paola Russo (Padre Pio Tv)

vai al video:

http://www.youtube.com/watch?v=RVo81epDDyU&list=UU6tZWEYfNqoF8XjF7xA-DHg&feature=share&index=3

Pubblicato da Giancarlo Ricci - MAIL: riccigian3@gmail.com alle 07:44 Nessun commento:
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Etichette: Giancarlo Ricci, L'atto la storia, Paola Russo
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ARGOMENTO DEL LIBRO

Il Novecento non è terminato con il crollo del muro di Berlino, né con quello delle Torri Gemelle, perchè qualcosa nella quotidianità continuava a crollare, a produrre macerie e relitti. E’ stata la scelta di lasciare il pontificato, annunciata l’11 febbraio 2013 da Benedetto XVI, a chiudere il secolo scorso trascendendo la storia della Chiesa e superando le mura del Vaticano. Quell’atto ha messo un punto, ha posto un sigillo: quanto accadrà prossimamente non potrà essere interpretato attraverso gli schemi cui eravamo soliti, e nei gesti di Papa Francesco possiamo già leggere cosa sarà il tempo futuro. Lo sguardo di uno psicanalista scruta la vertigine di una decisione senza precedenti e il suo significato per il futuro. E' uno sguardo che attraversa a volo radente il disagio attuale della civiltà. Con ironia, talvolta con sarcasmo, spesso con indignazione. Il ritmo è quello dell'invettiva.

SESSUALITA' E POLITICA

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BIOGRAFIA

Giancarlo Ricci - MAIL: riccigian3@gmail.com
Giancarlo Ricci vive e lavora a Milano. Psicoanalista e psicoterapeuta è Membro Analista dell’Associazione Lacaniana Italiana di psicoanalisi (ALIPSI). Saggista e scrittore, svolge attività pubblicistica. Promuove il laboratorio “Rete di psicanalisi Sigmund Freud”.
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I CIECHI DI BRUEGEL

"La civiltà procede come i ciechi di Bruegel, ciascuno tiene la mano sulla spalla dell’altro, ma nessuno sa dove si stia effettivamente andando. A ben pensarci non è senza enigma questa rappresentazione del sintomo (nell’accezione psicanalitica), che strutturandosi come “formazione di compromesso” insistentemente ostacola, osteggia, impedisce. E che introduce un’economia mortifera di perdita, di dissipazione, di smarrimento. “Il sintomo - scrive Freud - somiglia, nelle parole del Vangelo, a un vecchio otre riempito di vino nuovo”. Infatti come racconta la parabola se si mette il vino nuovo negli otri vecchi, perdiamo entrambi".

PAROLE DI BERGOGLIO

"Davvero singolari queste considerazioni di Bergoglio quando ancora era vescovo di Buenos Aires. Il suo invito ai cittadini di “formare comunità” procede in un movimento che punta a resistere a quello che normalmente accade nelle società avanzate, cioè il disgregamento dei legami proporzionale all’individualismo narcisistico. Quest’ultimo pretende sempre di più: “Chiede, esige, domanda, critica, moraleggia [...], non aggrega, non scommette, non rischia”, commenta Bergoglio".

L'ATTO SECONDO GIORGIO AGAMBEN

“Se questo gesto [le dimissioni di Benedetto XVI] ci interessa, non è certo soltanto nella misura in cui rimanda a un problema interno della Chiesa, quanto piuttosto perché esso permette di mettere a fuoco un tema genuinamente politico, quello della giustizia, che, al pari della legittimità, non può essere eliminato dalla prassi della nostra società. Noi sappiamo perfettamente che anche il corpo della nostra società politica è, come quello della Chiesa e forse ancora più gravemente, bipartito, commisto di male e di bene, di crimine e di onestà, di ingiustizia e giustizia. […]"

VIVA I LUMI CRISTIANI

INTERVISTA A DUCCIO DEMETRIO

(Dall'AVVENIRE del 15.11.2013, a cura di Alessandro Zaccuri)


Sulla spiritualità dei non credenti Duccio Demetrio riflette ormai da tempo, in libri che hanno appassionato molti lettori: La vita schiva (2007), Ascetismo metropolitano (2009), La religiosità degli increduli (2011). Nel suo saggio più recente (La religiosità della terra, appena pubblicato da Raffaello Cortina) l’elezione di Francesco ha fatto breccia quasi di prepotenza. «Era un testo già in preparazione – spiega l’autore, a lungo docente di Filosofia dell’educazione nelle università milanesi –, ma le parole di questo Papa mi hanno dato un’energia nuova».


Che cosa l’ha colpita in particolare?

«Il doppio registro della cura e della custodia, evidentissimo fin dai primi interventi di Bergoglio. Sono categorie essenziali anche per la ricerca non credente, della quale continuo a sostenere la necessità. La cura si rivolge all’umano, in noi e fuori di noi, mentre la custodia investe la terra, il creato. Ed è proprio questa sottolineatura a impressionarmi di più. Vede, quella della custodia è una storia taciuta, che emerge in rare occasioni, ma rappresenta la parte migliore dell’ecologismo. Troppe volte ci si è accontentati della semplice difesa e salvaguardia della natura, rifugiandosi magari in modalità New Age, neopagane, oppure in una versione politicizzata dell’impegno ecologista. Raramente la cultura laica ha voluto prendere in considerazione l’urgenza di una meditazione che riconsideri il nostro esistere nel mondo, in relazione con la natura e con la terra».


Per fare questo ci voleva Francesco?

«Ci vuole, aznitutto, una maggior consapevolezza di una tradizione che è stata finora disattesa. Prima ancora di essere rielaborati da sant’Ignazio, infatti, gli esercizi spirituali hanno rappresentato una pratica diffusa nell’antichità. La versione che personalmente sento più vicina a me è quella della filosofia stoica, rispetto alla quale, non a caso, lo stesso cristianesimo ha avvertito una prossimità possibile. A differenza dell’epicureo, lo stoico si inserisce nella società, assumendosi responsabilità addirittura a livello di governo, ma senza mai rinunciare a una condotta vigile verso di sé. È una disciplina intellettuale che non eccede nelle astrattezze del rigorismo, restando invece fedele alla religiosità della terra. Non vorrei che la mia sembrasse una forzatura storica, ma ho l’impressione che questa forma di stoicismo non si discosti troppo dal modello rappresentato da san Francesco».


Siamo di nuovo alla dialettica fra cura e custodia?

«Sì, declinata con un’immediatezza di linguaggio che costituisce senza dubbio uno degli elementi più forti nell’azione del Papa. C’è una ripresa di temi che riportano direttamente alla civiltà contadina, in un’essenzialità di parola e di sguardo che si traduce subito in poesia. Francesco, in ultima istanza, offre l’immagine di cristiano che anche un non credente, dentro di sé, attende. Ma tutto questo, aggiungo, non fa altro che aumentare le aspettative verso il processo di trasformazione che la Chiesa è chiamata a compiere».


Da dove bisognerebbe cominciare, secondo lei?

«Dalle domande essenziali, come al solito. E dall’atteggiamento del dubbio, di cui lo stesso Francesco ha riconosciuto l’importanza. Il dubbio è il punto di partenza ideale per il dialogo fra credenti e non credenti, in una dimensione che definirei di illuminismo cristiano. Si tratta di una visione esistenzialista della vita, simile a quella che si ritrova in molti pensatori del Novecento francese. Un modo di guardare alla realtà che non ne misconosce il versante tragico, ma lo accetta, lo fa proprio. In questo c’è l’opportunità di un rovesciamento che sarebbe proficuo per tutti».


A che cosa si riferisce?

«Al fatto che, in virtù del dubbio, anche il non credente ha accesso alla dimensione del mistero come a qualcosa di costitutivo del nostro essere ed esistere nel mondo. Il vero dialogo e l’incontro autentico si attuano sul piano dell’esistenza nuda, che è poi il luogo in cui si tace e, tacendo, si riconosce nel silenzio la sola possibilità di comunicazione. Accostarmi a ciò che non può essere detto significa accogliere il divino dentro e fuori di me, implica la coscienza che il divino è ovunque, ma con una connotazione particolare, che non può prescindere dall’idea di un Dio personale».


Aspetti, ora sta parlando da credente.

«No, sto dicendo che nel momento in cui, da non credente, provo a raffigurarmi l’immagine del divino, penso a qualcosa che parla dentro di me. Il rapporto con la terra è fondamentale, su questo non si discute, ma non appena ci inoltriamo nella dimensione del silenzio ci rendiamo conto che la contemplazione della natura non può sostituire l’esplorazione dell’interiorità».


Francesco è anche il Papa delle periferie.

«Il suo atteggiamento al riguardo fa giustizia di quei discorsi, intellettualistici e romantici insieme, che negli ultimi anni hanno negato la drammaticità di tante situazioni sociali ed esistenziali. Era un’esaltazione delle periferie che sottintendeva, in effetti, una fuga dalla responsabilità verso le periferie stesse. Con la sua presenza fisica nei luoghi marginali, da Lampedusa in poi, il Papa ci ricorda che non può esistere solidarietà senza amicizia. Che non esiste, insomma, relazione umana senza piena condivisione della propria e dell’altrui umanità».



Presentazione del libro IL TEMPO DELLA POST LIBERTA'

Presentazione del libro IL TEMPO DELLA POST LIBERTA'

I N D I C E

I N D I C E

Dall'Introduzione di Ricci

Tengo molto all’esergo che ho voluto porre a questa introduzione. Ho pensato che fosse il miglior emblema per illustrare la condizione della libertà nel nostro tempo. << adesso ci vorrebbe il pensiero >>: dopo tante conquiste sociali, dopo le ideologie e le post ideologie, dopo la post globalizzazione, dopo il post umano o chissà cos’altro, la nostra società, che ha voluto fare delle nuove libertà e dei nuovi diritti il vessillo del progresso, sembra essere in difficoltà in materia di pensiero. Pare sparito un pensiero che sia all’altezza delle numerose complessità che attraversiamo: un pensiero come progetto sociale, civile, culturale, politico, un pensiero come programma di civiltà, come disegno di logiche e di relazioni cooperanti non basate sulla specularità o sulla speculazione.

Intervista di G. Ricci su LA VERITA' del 26.1.19

Intervista di G. Ricci su LA VERITA' del 26.1.19

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L'INDICE DEL LIBRO

L’atto la storia.

Benedetto XVI, Papa Francesco e la fine del Novecento


Introduzione


PRIMO TEMPO -

L’atto di Benedetto XVI


- Atto inaspettato

- Un’altra laicità

- Farsi zolla

- Non scendo dalla croce

- Elogio dell’impotenza

- Spensierato relativismo

- Il collaudatore

- Termina il Novecento?

- La tenuta dei ponti

- Il crollo delle Torri

- Ritorno a Babele

- Un Altro Papa


SECONDO TEMPO -

L’arrivo di Francesco


- Dalla fine del mondo

- Teorema della povertà

- Benedico in silenzio

- Il posto degli ultimi

- La stoffa e lo strappo


Bibliografia


E. San Paolo, pp.94, € 9


IL PADRE DOV'ERA

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DOPPIA PERDITA

"Se le categorie del Novecento hanno proseguito fino a oggi è proprio perché la contemporaneità sembra abbia preferito utilizzare lo stesso abito del Novecento aggiungendo nuovi rattoppi. Nessuno si è assunto la responsabilità di versare vino nuovo in otri nuovi. Cosicché oggi tutti lo constatano: stiamo perdendo sia il vino sia gli otri. Doppia perdita. In questo raddoppiamento che si appresta a moltiplicarsi a dismisura, addirittura minacciando l’esistenza stessa dell’umano, riconosciamo la vertigine della contemporaneità"

L'ATTO DI BENEDETTO XVI

"L’atto di Benedetto XVI evoca indubbiamente la struttura dello strappo. E’ un atto che produce strappo. Non solo rispetto alla tradizione. Come se fosse un gesto che “squarcia il vecchio” per impedire uno “strappo peggiore”. Ratzinger, in tal senso, si mostra il migliore testimone del proprio tempo ossia di un civiltà rattoppata e strappata. Il suo atto, di fatto, parla di un rifiuto a cucire un “rattoppo nuovo” su un vestito vecchio. La metafora è davvero calzante, ma occorre leggerla alla rovescia: se ormai è indispensabile vino nuovo occorre otre nuova. In altri termini: non mi assumo più la responsabilità di un ulteriore rattoppo".

CIO' CHE HAI EREDITATO

Analogamente accade per la psicanalisi freudiana: il lavoro soggettivo in gioco nel processo analitico è appunto ricordare, ripetere e rielaborare (durcharbeiten ossia, alla lettera, lavorare attraverso, attraversando). L’ultimo di questi termini, rielaborare, è decisivo; indica che il soggetto, se davvero ha trovato la migliore soluzione alla propria questione, può ormai versare “vino nuovo in otri nuovi”. Si tratta di una soggettivazione, un far proprio. Riaffiora l’antica scommessa: “ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”..

IL SOFFIO DELLA VITA

A tal scopo le società attuali sono organizzate in modo che gli individui siano dipendenti dal godimento ottenuto da oggetti indifferenziati che vengono incessantemente prodotti, consumati e poi abbandonati come rifiuti.

Tale consumismo è diventato auto cannibalico, è consumo di consumo, è avere di avere. Non riusciamo più a vivere se non abbiamo. No, il teorema della povertà indica come basti poco, pochissimo, per vivere. Basta un non nulla. Basta la lievità di Psiche. Basta il soffio della vita.

UNA LEZIONE DI LAICITA' di SALVATORE VECA

UNA LEZIONE DI LAICITA’ (da L’AVVENIRE del 31.10.2013. Intervista a cura di Alessandro Zaccuri)


Laicità, certo: laicità. È un tema che sta molto a cuore al filosofo Salvatore Veca, che oggi pomeriggio viene festeggiato a Pavia, presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori, a conclusione della sua carriera accademica. Contemporaneamente arriva in libreria Un’idea di laicità (il Mulino, pagine 100, euro 10), un piccolo saggio in cui Veca ha distillato gli elementi essenziali di una riflessione che lo accompagna da anni. Uno, più degli altri, gli preme sottolineare prima di prendere in esame le prospettive di dialogo indicate da Francesco in questi primi mesi di pontificato: «Al contrario di quanto si pensa solitamente – dice lo studioso – la libertà religiosa non deriva dall’insieme dei diritti politici, ma li genera e li fonda, per tutta una serie di ragioni storiche e concettuali».

Allude allo «sfinimento» provocato dalle guerre di religione all’epoca della Riforma?

«Sì, la radice è quella: tu e io, che finora ci siamo combattuti sulla base delle nostre rispettive credenze religiose, sigliamo un patto di convivenza, compossibilità e reciproca compatibilità, che ci permetta di conservare convinzioni alternative, ma nel contempo ci aiuti a riconoscerci nella comune condizione di cittadinanza democratica».

Così semplice?

«Solo in teoria, perché all’atto pratico questo principio può essere modulato in maniera molto diversa. C’è un primo livello, non necessariamente disprezzabile, che è quello dell’indifferenza. Ci arrestiamo su una soglia minima, d’accordo, che resta comunque preferibile rispetto alla violenza. Mi viene da osservare che papa Bergoglio proviene da un contesto, quello dell’America Latina, in cui una prospettiva del genere rappresenta già una conquista. Ma anche qui in Europa, di recente, siamo costretti ad ammettere che il venir meno dell’indifferenza prelude al collasso di tutto l’edificio della tolleranza. All’altro estremo troviamo l’atteggiamento che, invece, Francesco sta testimoniando con le sue parole e con i suoi gesti: non l’indifferenza, ma l’attenzione, una curiosità verso l’altro che diventa apertura, passione, disponibilità a imparare. Sempre nel contesto della laicità, si badi bene, e senza mai venir meno alle proprie credenze».

Sta dicendo che dal Papa viene una lezione di laicità?

«La laicità, intesa nel suo significato più autentico, appartiene al cristianesimo in modo irrinunciabile e costitutivo. Per rendersene conto basta ascoltare l’esperienza di tanti parroci, di tanti sacerdoti che stanno vicini alle persone nei loro drammi e nei loro bisogni più profondi. È l’esempio dato da Francesco, appunto: non esporre agli altri la dimostrazione delle ragioni per cui sarebbe legittimo o sensato credere, ma rendere evidente che c’è una vita spesa e vissuta, in concreto, sulle ragioni della fede».

Ed è per questo che l’invito al dialogo risulta tanto convincente?

«Anzitutto questo sgombra il campo da una retorica, come dire?, diplomatica. Quella per cui si invoca il dialogo e ci si richiama a una generica melassa di valori comuni, evitando però di prendere sul serio le differenze su ciò che è fondamentale nella vita di ciascuno. L’insistenza di papa Francesco sulla verità vissuta come relazione, e non imposta come astrazione, conduce verso questo orizzonte di serietà, oltre che di precisione concettuale».

In che senso?

«Legare la verità all’esperienza della verità è tema cristiano, e anzi cristologico, per eccellenza. Ma anche al di fuori di una prospettiva di fede rappresenta un monito a non considerare la verità come qualcosa che possa essere pronunciato dall’esterno. La verità sta sempre nella partecipazione, nello stare in mezzo agli altri, praticando una lealtà che è dovuta in primo luogo a se stessi. Troppe volte abbiamo assistito a una confusione di piani più o meno volontaria, per cui il modello della verità scientifica viene applicato in maniera surrettizia a contesti di tutt’altro tipo. Le leggi della fisica sono vere in quanto verificate, non c’è dubbio. Però non sono sullo stesso piano di un’affermazione come “Io sono la via, la verità e la vita”».

È una distinzione solo teorica?

«Niente affatto. A nessuno può essere richiesto di venire meno a una convinzione di fede. Questo equivarrebbe a un’ingiunzione tirannica e sarebbe, inoltre, la sconfessione della verità come principio pluralista. Il che non significa, lo ripeto, che ogni asserzione può essere scambiata con qualsiasi altra. Vale semmai l’opposto: proprio perché la verità deve essere perseguita in ambiti diversi, diventa particolarmente urgente interrogarsi su che cosa significa l’incontro con Qualcuno che è la verità».

Torniamo all’origine religiosa delle libertà civili?

«O forse approdiamo alla misericordia come modello autentico di una convivenza basata sulla serietà delle proprie convinzioni e sull’attenzione appassionata per le convinzioni degli altri. Nel caso di papa Francesco si citano molte ascendenze, molte similitudini. Quella che personalmente mi colpisce di più riguarda un altro grande gesuita vissuto nel XVI secolo. Penso a Matteo Ricci, nel quale i cinesi riconobbero un amico venuto da lontano per trovare nuovi amici. Ecco, esattamente questo è lo stile di Francesco, lo stile della laicità».

LEGALITA' E LEGITTIMITA'

“L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce anzi, attraverso un eccesso di legalità formale, la perdita di ogni legittimità sostanziale. Il tentativo della modernità di far coincidere legalità e legittimità, cercando di assicurare attraverso il diritto positivo la legittimità di un potere, è, come risulta dall’inarrestabile processo di decadenza in cui sono entrate le nostre istituzioni democratiche, del tutto insufficiente”. In G. Agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, p. 18.

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