sabato 28 giugno 2014

LA DEMOCRAZIA, UN CONCETTO AMBIGUO. Di Giorgio Agamben


Il filosofo GIORGIO AGAMBEN era ad Atene, invitato dai giovani di SYRIZA e dall’istituto Nikos Pulantzas. Il suo intervento, nell’aula gremita di Technopoli, dal titolo “Una teoria sul potere della spoliazione e del sovvertimento”, è stato dedicato al quarantennale della rivolta del Politecnico. Domenica 17 novembre (2013) hanno conversato con lui Anastasia Giamali, per “Gemme dell’Alba”, e Dimosthenis Papadatos-Anagnostopulos per “RedNotebook”. 

Hanno collaborato Xenia Chiaramonte e Stratis Burnazos. La traduzione è di Giorgio Fogliani con la consulenza di Dimitris Kosmidis. Si ringrazia il sito DOPPIOZERO da cui è tratta l’intervista di cui pubblichiamo qui i passi pincipali. 

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DOMANDA. La società nella quale viviamo non è semplicemente non democratica, ma, in ultima analisi, non politica, dal momento che lo status di cittadino non è più una categoria del diritto. È dunque conseguibile il cambiamento politico nella direzione di una società politica?
Quel che volevo evidenziare è l’aspetto del tutto nuovo della situazione.  Credo che, per capire ciò che ci siamo abituati a chiamare “situazione politica”, dobbiamo tenere a mente il fatto che la società nella quale viviamo forse non è più una società politica. Un fatto simile ci obbliga a cambiare completamente la nostra semantica. Ho provato allora a mostrare come, nell’Atene del quinto secolo a.C., la democrazia inizi con una politicizzazione dello status di cittadino. L’essere cittadino ad Atene è un modo attivo di vita.

Oggi, in molti paesi d’Europa, come anche negli USA, dove la gente non va a votare, l’essere cittadino è qualcosa di indifferente. Forse in Grecia questo vale in misura minore; per quanto ne so, qui esiste ancora qualcosa che somiglia a una vita politica. Il potere oggi tende a una depoliticizzazione dello status di cittadino. La cosa interessante in una situazione talmente depoliticizzata è la possibilità di un nuovo approccio alla politica. Non si può stare attaccati alle vecchie categorie del pensiero politico. Bisogna rischiare, proporre categorie nuove. Così, se alla fine si verificherà un cambiamento politico, forse sarà più radicale di prima.
DOMANDA. Seguendo Foucault, lei ha detto che la “logica” del potere contemporaneo non consiste nel fronteggiare le crisi, ma nel gestirne le conseguenze. Nel suo libro La comunità che viene, lei sostiene che le cose non cambiano, e che, se qualcosa cambia, sono i suoi termini.  Un tentativo di “cambiamento dei termini” può mai ispirare anche una mobilitazione, se nel frattempo non aspira a cambiare le cose?
Ritengo questo punto, che i nuovi governi o almeno i governi contemporanei non vogliano governare affrontando le cause ma solo le conseguenze, estremamente significativo. 
Perché questo è totalmente diverso dalla concezione tradizionale che abbiamo del potere – in linea con la concezione di Foucault di stato sovrano. Se la logica del potere è controllare solo conseguenze e non le cause, c’è una bella differenza. Quello che volevo intendere con l’idea di "cambiamento dei termini" è che abbiamo un potere che semplicemente gestisce conseguenze.

DOMANDA. In un suo articolo pubblicato il mese scorso su Libération (ottobre 2013) lei ricordava un saggio di Alexandre Kojève del 1947, dal titolo “L’impero latino”, dove il filosofo francese propone la costituzione di un “impero” di Francia, Italia e Spagna, paesi dal comune substrato culturale che, in collaborazione con i paesi del Mediterraneo, avrebbero potuto contrastare una Germania in predicato di tornare grande. Lei ritiene che un simile progetto sia un possibile contrappeso all’egemonia di Angela Merkel. Eppure, sembra che i leader di quei paesi siano più interessati alla realizzazione del “dogma Merkel” nella propria politica interna che alle ripercussioni di quel dogma in un’Europa sempre più frammentata.
Ho scritto quell’articolo perché volevo ricordare che l’Europa che abbiamo oggi è, quantomeno da un punto di vista istituzionale, non legittimata. Come sapete, la Costituzione Europea non è una Costituzione, ma un accordo tra stati – cioè il contrario di un Costituzione, poiché le Costituzioni le fanno i popoli. Perciò ho fatto ricorso a questa idea di Kojève: è possibile un altro modello per l’Europa? Quel modello è interessante perché si basa non su una unità astratta, ma su una unità molto concreta, basata sulla tradizione, lo stile di vita, la religione. In qualche modo, costituisce forse una possibilità concreta. Naturalmente, la Grecia dovrebbe far parte di questo gruppo. 
Sono rimasto sorpreso dalle reazioni che l’articolo ha suscitato. Quando l’ho scritto, era più che altro una provocazione per cominciare una critica all’Europa. Ma in Germania ha avuto inizio un enorme dibattito. Erano molto infastiditi. E ancora mi scrivono, chiedendomi di spiegare cosa intendessi. Il che significa che anche un tedesco vede che c’è un errore nell’Europa oggi, anche nella sua ottica di tedesco. Questo dimostra che il modello di Europa che abbiamo oggi non è accettato. Lo testimonia il fatto che il popolo francese e quello olandese hanno detto no alla costituzione europea – e immagino che anche in Grecia verrà bocciata.
DOMANDA. La sua opera è particolarmente popolare, sebbene irradi un certo pessimismo. Žižek, per esempio, scrive a proposito di Homo sacer  che lei, con il suo sostenere che la sfera della “nuda vita” tende a essere la sfera della politica, intende sottovalutare la democrazia, lo stato di diritto ecc.. Li ritiene cioè come se fossero “artifizi” del potere contemporaneo. È fondata questa critica?
Non sono pessimista, esattamente il contrario. L’ottimismo e il pessimismo, d’altronde, non costituiscono categorie filosofiche. Non puoi giudicare un pensiero o una teoria sulla base del suo ottimismo o pessimismo. A volte il mio amico Guy Debord citava un brano di Marx che dice: “La situazione catastrofica delle società in cui vivo mi riempie di ottimismo”. Ciò che tento di fare nel mio libro su Auschwitz, il campo di concentramento, la contemporaneità, non è un giudizio storico. Tento di delineare un paradigma, al fine di capire le politica ai giorni nostri. Non intendo dire dunque che viviamo in un campo di sterminio – molti dicono “Agamben dice che viviamo in un campo di concentramento”. No. Ma se prendi il campo di concentramento come paradigma per capire il potere oggi, questo può essere utile.
DOMANDA. Negli anni della crisi viene quasi naturale rievocare il primo dopoguerra, la repubblica di Weimar. Per tutta la sua vita lei ha dialogato, o come scrittore o come traduttore, con un’importante personalità di questo periodo, Walter Benjamin. Che cos’ha da dirci Benjamin oggi?
L’edizione dell’opera di Benjamin in Italia ha significato un rinnovamento del pensiero di sinistra. Ciò che trovo interessante in Benjamin è il modo in cui prende la semantica teologica – come per esempio il concetto di tempo messianico e l’escatologia della concezione – e la estrae dal contesto teologico, facendola funzionare con la sfera politica. Da un punto di vista metodologico, questo è molto importante. Per produrre una nuova semantica politica, dobbiamo imparare da Benjamin. Nel mio libro Il regno e la gloria   ho mostrato come la teologia cristiana ha rielaborato questo paradigma. È stato incredibile per me scoprire – lavorando e tornando alla ricerca – che per capire che cos’è il governo è più importante studiare trattati medievali sugli angeli che saggi di dottrina politica. È stato davvero illuminante. Lo stesso accade per Benjamin. Ha una buona idea sul tempo messianico – ogni attimo della storia, nel presente, è l’attimo decisivo, l’Ora del Giudizio: affrontiamo la storia come se ogni attimo fosse quello decisivo (...).
Direi che la democrazia non è tanto un concetto generico, quanto ambiguo. Noi affrontiamo questo concetto come se fosse la stessa cosa nell’Atene del quinto secolo e nelle democrazie contemporanee. Come se fosse dappertutto e sempre chiarissimo di che cosa si tratta. La democrazia è un’idea incerta, perché significa in primo luogo la costituzione di un corpo politico, ma significa anche e semplicemente la tecnologia dell’amministrazione – ciò che abbiamo oggi. Oggi la democrazia è una tecnica del potere, una tra le altre.
Non intendo dire che la democrazia è cattiva. Facciamo allora questa distinzione, tra democrazia reale come costituzione del corpo politico e democrazia come mera tecnica di amministrazione che si regge sui sondaggi, sulle elezioni, sulla manipolazione dell’opinione pubblica, sulla gestione dei mezzi di comunicazione di massa ecc. La seconda versione, quella che i governanti chiamano democrazia, non somiglia in niente a quello che esisteva nel quinto secolo. Non puoi usare la democrazia come nuovo Paradigma, se non dici cos’è oggi la democrazia. Se vuoi propugnare la democrazia, devi pensare qualcosa che non abbia nessun rapporto con ciò che oggi si chiama democrazia. 
DOMANDA. L’antichità classica, greca e romana, è costantemente presente nella sua opera. Questa scelta è fortemente simbolica, in un momento in cui l’università pubblica viene smontata, le scienze umanistiche sono svalutate e la cultura classica tende a essere affrontata come un pezzo da museo, un anacronismo...
Mi fa piacere che mi facciate questa domanda. Non si tratta semplicemente di una priorità culturale. È una priorità politica. La relazione con il passato oggi non è un problema culturale, ma politico. Non si può capire che cosa succede oggi se non si capisce che un'altra cosa che è cambiata completamente oggi è la relazione vivida col passato. Quello che fa oggi il potere – lo vedo succedere in Italia come in Grecia – è disarticolare il sistema di “trasmissione” del passato. 
Sono persuaso che l’archeologia, nel senso foucaultiano, è l’unico modo per avere un aggancio al presente. Possiamo avere un aggancio al presente solo se andiamo indietro. È questa un’immagine che Foucault usa molto, dicendo che la sua ricerca storica è un’ombra che getta sul passato l’interrogarsi sul presente. Non puoi interrogare radicalmente il presente se non vai indietro. È la sola strada. Ed è questo che oggi vogliono evitare. Presentano il presente come un problema meramente economico, e tu devi dire solo sì o no. Questo ostacola seriamente la possibilità di fare politica (...)
DOMANDA. Carl Schmitt, l’importante teorico che, come è noto, abbracciò il nazismo, costituisce per lei un riferimento costante, specialmente nel libro Stato d’eccezione, dove lei tenta di dimostrare che la regola del potere non è la legge ma l’eccezione, l’anomia. Al tempo stesso, il suo lavoro è profondamente influenzato da Foucault, il cui argomento basilare è che il potere ha un contenuto positivo – forma, costruisce. Quali sono, alla fine, i termini dell’uso di Schmitt in un ambito di pensiero progressista?
Mi date l’occasione di chiarire questo punto, perché spesso ricevo critiche per quest’uso di Schmitt. Egli sostiene che è sovrano colui che decide circa la stato d’eccezione, quindi il potere poggia sull’eccezione; la mia idea è che mentre Schmitt si ferma qui, e dice che il campo della legge è lo stato di eccezione, allo stesso tempo dice che la legge è in vigore. La concezione della legge in Schmitt è che la legge comprende l’eccezione alla legge stessa, ma allo stesso tempo la legge è ancora lì – di conseguenza non possiamo parlare di a-nomia. Io, al contrario, provo a dimostrare che questo è un errore: che ciò che si verifica in questo caso è semplicemente una zona di anomia. 
Qual è dunque la differenza tra me e Schmitt? Che io provo a dimostrare che la legge non c’è più. E qui arriva ciò che ho sostenuto nel mio discorso ad Atene di sabato, che cioè l’importante è dimostrare che l’anomia è stata soggiogata dal potere. Il sistema di Schmitt funziona solo se accettiamo che la sospensione della legge è ancora legge, che quella zona di anomia è lecita. Nel mio discorso ho provato a dimostrare che un potere de-istituente (destituent power) deve rendere chiaro che il sistema legale all’interno del quale viviamo non si fonda su una sospensione legale della legge, ma semplicemente sull’anomia. In un caso simile, il sistema di Schmitt crolla.
DOMANDA. Crede che Benjamin sia una specie di schmittiano di sinistra?
No, questo è un errore. Benjamin sostiene che davanti allo stato di eccezione bisogna produrre un vero e proprio stato di eccezione. Lo stato di eccezione di Schmitt è fittizio nel momento in cui insinua che la legge c’è ancora. Un “vero” stato di eccezione, con Benjamin, è il seguente: dite che qui non c’è legge? Beh, allora, noi lo prendiamo sul serio: di fatto, non c’è. L’anarchia, dunque, che si trovava all’interno del potere, ora si confronta col potere nello stato di eccezione come inteso da Schmitt. Non ho in mente uno scontro violento con il potere. Al contrario, mi interessa quanto strategica possa risultare questa anomia. Sarebbe la strada che dimostrerebbe che al centro della legge si trova l’anomia. Quando dico che bisogna concepire un potere de-istituente, penso che la violenza costituisca un potere costituente, cioè il contrario.